Joseph de Maistre, Scritti politici. Saggio su il Principio Generatore delle Costituzioni Politiche. Studio sulla Sovranità, trad. it di Lamberto Crociani OSM e Simonetta Moretti, con una presentazione di Luigi Negri e un’introduzione di Franco Cardini, Edizioni Cantagalli, Siena 2000, pp. 336, L. 32.000
Quasi nessun autore contro-rivoluzionario può vantare una fortuna paragonabile a quella del conte savoiardo Joseph de Maistre (1753-1821). L’egemonia culturale gramsciana — la quale per sua natura pesa sui suoi seguaci come sui suoi nemici nella forma dell’«autocensura» — di norma condanna gli autori di tale orientamento alla damnatio memoriae, ovvero si comporta come se non fossero mai esistiti. Ma per l’«Ezechiele di Pietroburgo» ciò non è stato possibile. Così, esso ha continuato e continua a essere pubblicato, e le sue riflessioni continuano a fortificare gli uni e a scandalizzare gli altri.
Ultimamente, per le Edizioni Cantagalli di Siena, sono usciti in volume unico il Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche e delle altre istituzioni umane, nonché lo Studio sulla sovranità.
Tali testi ruotano intorno alle seguenti domande: qual è il collante che tiene unite le società? Cosa fa sì che una società possa dirsi funzionante? Da dove proviene il potere che in essa si esercita?
Il punto di partenza globale del pensiero di de Maistre è che «tutto riconduce […] all’autore di tutte le cose. […] tutto viene da lui, eccetto il male» (p. 334). Pertanto, tutto il movimento della storia è guidato dalla Provvidenza, con la quale gli uomini possono collaborare o alla quale possono, invano, opporsi: «Siamo tutti legati al trono dell’Essere supremo con una catena leggera, che ci trattiene senza asservirci», egli scrive nelle Considerazioni sulla Francia. Gli uomini, «liberamente schiavi», «[…] operano secondo volontà e necessità insieme: fanno realmente quel che vogliono, ma senza poter disturbare i piani generali». Da questi due assiomi derivano, per conseguenza, due corollari principali; che ogni ambito della realtà umana deve essere sottoposta in esplicito alla sovranità di Dio, pena i suoi isterilimento e morte per mancanza di fonte e di alimento; e che tutto quanto accade, anche il male, è governato e tollerato dalla Provvidenza per disegni a noi ignoti, ai quali dobbiamo affidarci nell’umiltà e nella preghiera.
L’uomo, con il peccato originale, si è voluto allontanare dal proprio Principio, desiderando di essere, come Dio, creatore di tutto. Il male, così, è penetrato nel mondo e ha deturpato in noi l’immagine di Dio, precipitandoci dalla vetta della civiltà nell’abisso dell’infermità, dell’ignoranza e della colpa. Con la Croce, il male diviene, se accettato, salutare medicina per la nostra correzione. Sta all’uomo decidere se vuole mettersi alla sequela di Cristo, trasformando il male in strumento d’espiazione, oppure allontanarsi ancora di più, chiudendosi in un «autocastigo», qual è ogni prefigurazione terrestre dell’inferno, inteso in senso pieno come lontananza da Dio.
È quanto accaduto negli ultimi secoli all’Europa. Così si esprime nei Cinque paradossi: «Al principio del secolo scorso [il XVIII], coloro che il protestantesimo aveva abbastanza dirozzato, erano tutti apparecchiati all’empietà. Bayle [Pierre, 1647-1706] aveva alzato la bandiera, e da ogni parte si avvertiva un sordo fermento, una rivolta dell’orgoglio contro tutte le verità tradizionali, e una generale inclinazione a distinguersi per indipendenza e novità di opinioni». È l’illuminismo, la cui radice profonda de Maistre chiama, nelle Serate di Pietroburgo, «teofobia»: «Osser-vate bene e la scoprirete in tutte le opere filosofiche del secolo diciottesimo. Esse non dicono apertamen-te: “Non esiste alcun Dio” […]; dicono invece: “Dio non è qui. Non è nelle vostre idee, le quali vengono dai sensi; non è nei vostri pensieri, i quali non sono che sensazioni rielaborate; non è nei flagelli che vi affliggono, i quali sono feno-meni fisici come gli altri, spiegabili attraverso leggi che conosciamo. Dio non pensa a voi; non ha fatto nulla per voi in particolare […]”».
Infine — e veniamo ai testi in questione — la deriva politica di tale pensiero: «Poiché l’Europa intera era stata civilizzata dal cristianesimo e i ministri di questa religione avevano ottenuto in tutti i paesi una grande esistenza politica, le istituzioni civili e re-ligiose si erano fuse e come amalgamate in ma-niera sorprendente, al punto che si poteva dire di tutti gli stati dell’Europa ciò che Gibbon [Edward, 1737-1794] ha detto della Francia, che questo regno era stato fatto dai vescovi. Era dunque inevitabile che il filosofo del secolo non tardasse a odiare le isti-tuzioni sociali da cui non gli era possibile separare il principio religioso. Ecco ciò che capitò: tutti i governi, tutte le istituzioni dell’Europa lo deplorarono, perché erano cristiani e nella misura in cui erano cristiani; un disagio di opinione, un malcontento universale si impossessò di tutte le teste. In Francia soprattutto la rabbia filosofica non conobbe più limiti, subito una sola formidabile voce, formatasi da tante voci riunite, si udiva gridare al centro dell’Europa colpevole:
«“Lasciaci! Bisognerà dunque tremare in eterno davanti ai preti e ricevere da loro l’istruzione che ad essi piacerà dare a noi? la verità, in tutta l’Europa, è nascosta dai fumi del turibolo, è tempo che questa esca da una tale nube fatale. Non parleremo più di te ai nostri figli, dipende da loro, quando saranno uo-mini, sapere se tu esisti e ciò che sei e quanto domandi a loro. Tutto quello che esiste ci dispiace, perché il tuo nome è scritto su quanto esiste. Vogliamo distruggere tutto e rifare tutto senza di te. Esci dalle nostre assemblee, esci dalle nostre accademie, esci dalle nostre case: sa-premo bene agire da soli, la ragione ci è sufficiente. Lasciaci”.
«Come Dio ha punito questo esecrabile delirio? L’ha punito così come creò la luce con una sola parola. Egli disse: FATE! E il mondo politico è crollato. […] Da una parte, il principio religioso presiede a tutte le creazioni politiche, e dall’altra tutto scompare, quando questo si ritira» (pp. 105-107). Voler costruire le società e le sue costituzioni a tavolino è un atto di superbia — «Ogni civiltà comincia dai sacerdoti, dalle cerimonie religiose, dai miracoli, non importa se veri o falsi», ammonisce in Del Papa —, di disprezzo delle radici religiose, della storia secolare se non millenaria di una nazione, immaginando stati di natura fittizi e contratti sociali inesistenti. La polemica antimonarchica dell’illuminismo nasconde, con il sofisma dell’identificazione monarchia-sovranità — il vero bersaglio dei philosophes, che de Maistre identifica correttamente: «Sì, ogni sovranità viene da Dio, sotto qualsiasi forma esista non è affatto opera dell’uomo. È una, assoluta, e inviolabile nella sua natura. Perché dunque prendersela con la regalità, come se gli inconvenienti che si rimproverano a questo sistema non fossero gli stessi sotto ogni specie di governo?» (p. 216-217).