Il quotidiano dei vescovi inneggia all’Unione Europea e la pone come modello.
Ma punisce l’Ungheria sulla questione dell’immigrazione.
Ma è quell’Europa, nemica dei popoli, la cui cultura di riferimento è artificiale e imposta dal centro e dall’alto.
Il caso Ungheria
Da tempo ormai l’Unione Europea è in guerra contro l’Ungheria del presidente Orban, uno Stato membro che, a dire della Commissione, pretende ancora di decidere qualcosa in casa sua.
Nei giorni scorsi, come noto, la Commissione ha deferito l’Ungheria alla Corte di Giustizia per non essersi attenuta alle norme comunitarie in tema di diritto d’asilo e accoglienza degli immigrati.
In questo modo il muro che separa alcuni Stati dell’Europa orientale dagli indirizzi dell’Unione si è ulteriormente alzato e due mondi culturali e giuridici si confrontano l’un contro l’altro armati.
Ci si deve aspettare che anche la Croazia venga deferita per aver stampato una moneta con l’immagine di un feto in onore al diritto alla vita, contrariamente alle posizioni di Bruxelles?
Il quotidiano della CEI Avvenire del 20 luglio scorso (clicca qui) demonizzava l’Ungheria e dedicava un editoriale di Giorgio Ferrari a fiancheggiare la Commissione, segno di un’Europa – secondo lui – fedele ai principi che l’ha fatta nascere: “Questa è l’Europa che ci piace”, non rendendosi conto, il nostro Ferrari, che o l’Unione europea riallaccia i rapporti con le nazioni e gli Stati e cessa il ruolo dell’arcigna matrigna, oppure continuerà sulla strada della delegittimazione, arrivata oggi ad uno stadio già molto avanzato.
Nel suo ultimo Rapporto dedicato proprio all’Unione Europea, l’Osservatorio Cardinale Van Thuân nota tra l’altro che il processo di unificazione ai suoi inizi aveva davanti a sé due strade. La prima era ricollegarsi con la tradizione degli imperi, non per ripeterne le realizzazioni ormai irrecuperabili, ma per valorizzare la loro dimensione di essere una “comunità di comunità”, una varietà di nazioni tenute insieme da una morale naturale comune e strutturate sussidiariamente, con una autorità (e quindi non semplicemente un potere) a garantirne la reductio ad unum, e la molteplicità delle nazioni a garantirne la coexistentia membrorum.
La seconda strada era invece quella dello Stato moderno che si struttura a Westfalia, si consolida con Napoleone e culmina nello Stato weberiano nell’Otto e Novecento, compresa la sua forma, solo apparentemente diversa, di Stato sociale. Lo sviluppo dell’Unione Europea, purtroppo, ha scelto la seconda strada ed è nato così il Super-Stato europeo che deferisce l’Ungheria alla Corte di giustizia, governato da un esecutivo cooptato e privo di legami con alcunché.
Se si fosse seguita la prima soluzione, esisterebbe ancora la sussidiarietà giuridica, che può essere diversificata analogicamente perché i suoi soggetti sono legittimamente plurimi e contemporaneamente tenuti insieme dal medesimo contesto culturale e morale di riferimento. E questa sussidiarietà giuridica disciplinerebbe in modo diverso e nello stesso tempo unitario il problema immigrati. La cultura di riferimento dell’Unione Europea, quella a cui inneggia l’editoriale di Ferrari, è invece artificiale, imposta dal centro e dall’alto, e non è in grado di tenere uniti gli Stati membri che, al richiamo del diritto naturale e della legge morale naturale, reagiscono e reclamano la loro autonomia. È un grave errore chiamare populismo o nazionalismo quanto è invece recupero della dimensione naturale del diritto e della politica: proteggere la propria identità e la propria storia, compresa quella religiosa, difendere la vita e la famiglia, curarsi dei concittadini poveri, evitare il multiculturalismo fallimentare, non considerare la società multireligiosa come un esito deterministico della storia. Oggi la cultura di riferimento della Commissione europea demonizza ed emargina questi valori, ma sbaglia ed è un peccato che la Chiesa la segua.
Non credo che l’Unione supererà facilmente la sua crisi odierna, anzi non so nemmeno se la supererà. Certamente non la supererà deferendo gli Stati non allineati alle Corti di giustizia, ma impegnandosi per rimettersi in ascolto delle nazioni e, bisogna precisare, degli Stati che hanno saputo conservare e proteggere parti importanti della storia della loro nazione anche dagli attacchi della cosiddetta società civile internazionale a cui appartiene anche George Soros, come è appunto il caso dell’Ungheria.
Rimane poi da capire cosa spinga i vescovi italiani e il loro quotidiano ad adoperare con tono moralistico etichette ideologiche dettate dal pensiero dominante.
Secondo queste etichette l’europeismo di Bruxelles sarebbe il bene, le politiche di Orban il male; la visione del mondo di Macron (a cui il numero 4031 de “La Civiltà Cattolica” dedica un articolo entusiasta e celebrativo) sarebbe ispirata mentre quella di Salvini disperata; il blocco delle frontiere condannabile, l’aborto di Stato auspicabile.
In questo modo, tra l’altro, ci si allontana dal sentire di tanta parte del popolo italiano e ungherese ed anche dall’episcopato del Paese magiaro.