Pellico e Verdi «devoti» del Sales
di ROBERTO BERETTA
Avvenire 29-7-2008
Sta in ginocchio da quattro secoli e non è ancora stanca, Filotea.
«Rivolgo la mia parola a lei e, volendo mettere a disposizione di molte anime ciò che in un primo tempo avevo scritto per una sola, uso il nome comune a tutte quelle che vogliono essere devote; Filotea, infatti, vuol dire amante e desiderosa di amare Dio».
Così Francesco di Sales nella prefazione del suo «povero piccolo libro »: la celeberrima Filotea, appunto, ovvero Introduzione alla vita devota,
un classicissimo della spiritualità che pare sia il titolo cattolico più stampato di sempre, dopo i testi sacri. E che proprio ad agosto compie 4 secoli: fu infatti nell’estate 1608 che il suo autore – nobile di famiglia savoiarda, vescovo della Ginevra calvinista, fondatore e direttore spirituale di grandi fondatori, futuro dottore della Chiesa – consegnò il testo allo stampatore lionese Pierre Rigaud, che poi lo fece uscire a dicembre (anche se la data sulla prima edizione è il gennaio 1609).
Da allora, la Filotea ha generato una quantità di imitazioni (in realtà non sempre all’altezza dell’originale) ed è diventata anzi sinonimo del manuale di orazione tout court per generazioni di pie donne: che del resto erano sempre state il pubblico privilegiato del Sales, prima di tutte la futura santa Francesca di Chantal. Anche l’opera per cui il vescovo è rimasto celebre, infatti (sarà seguita 7 anni più tardi dal meno noto
Teotimo, ovvero Trattato dell’amore divino), era stata scritta per una nobildonna, Louise de Charmoisy, vedova di un suo cugino, che il futuro santo aveva dovuto spiritualmente «corteggiare» 4 anni prima che cadesse – parole sue – «nella mia rete». A costei il sacerdote aveva fornito dei «consigli per iscritto » e, avendoli lei passati a un gesuita per conferma, quest’ultimo li trovò «un tesoro talmente eccellente e utile che sollecitò a farli stampare».
Filotea è comunque un personaggio già etimologicamente universale e anche per questo il suo successo fu subito straordinario: la secon- da edizione dell’opera – arricchita di altri scritti originariamente destinati alla Chantal – seguì immediatamente la prima e alla terza l’autore poteva precisare: «Questo libretto è uscito dalle mie mani nell’anno 1608. Nella seconda edizione sono stati aggiunti diversi capitoli, ma poi una svista ne ha fatti tralasciare tre inclusi nella prima. In seguito è stato stampato spesso senza la mia approvazione, e, con le ristampe, anche gli errori si sono moltiplicati.
Ora, eccolo di nuovo corretto, con tutti i capitoli». In ogni modo l’edizione definitiva è del 1619; entro il secolo solo in francese se ne enumerarono 40 edizioni e alla fine dell’Ottocento ben 400.
In italiano fu fatta tradurre da Gregorio Barbarigo, vescovo di Bergamo, poco oltre la metà del Seicento. Silvio Pellico ne Le mie prigioni la definisce opera di «ottimo filosofo» e Giuseppe Verdi la annovera nella sua pur «laica» biblioteca. Don Bosco la lesse già in seminario, quando scherzava sul suo cognome sostenendo di essere un «bosco di sales » («salice», in dialetto piemontese), e tanto ne stimò il modello educativo «dolce» e l’ascetica «popolare » da intitolare al suo autore prima l’oratorio e poi la congregazione. Pio XI nel 1923 definì il libro «il più perfetto nel suo genere, secondo i suoi contemporanei» e si auguro che tutti i cristiani lo leggessero.
Papa Luciani in un discorso rivelò di conoscerlo fin da bambino in un’edizione «purgata» e di averla «amata fin dall’infanzia», tanto da ricomprarla – ormai prete – in francese.
Ciò che apparve anzitutto innovativo fu la scelta di san Francesco di rivolgersi ai laici: «Di fronte a forme di pietà sovraccariche di elementi monastici – riassume lo studioso di spiritualità Anton Mattes –, egli propone un nuovo modo di essere cristiani in mezzo al mondo». La Filotea è in effetti una miniera di consigli pratici (anche troppo, apparentemente: per esempio sul modo di vestire o di fare conversazione, sui passatempi e le passeggiate, i balli, il cibo, la vita coniugale…) diretti al ceto medio-alto, che non poteva sottrarsi ad alcune abitudini della cosiddetta «buona società» ma desiderava al medesimo tempo crescere nella virtù e nella vita cristiana.
Affiora poi lo schema loyolano degli Esercizi (il Sales aveva studiato dai e con i gesuiti), con le meditazioni da svolgere «mettendosi alla presenza di Dio»; ma – invece di impostare il metodo Contro la severità dei calvinisti il testo sottolinea la dolcezza nell’educazione.
Un vero manuale ascetico che però non risparmia consigli pratici sui flirts d’amore a mo’ d’addestramento militaresco – il vescovo ginevrino preferisce insistere sull’educazione dei sentimenti. Nella Filotea – riepilogava Pio XI – si mette «in chiaro quanto la durezza, che atterrisce e scoraggia nell’esercizio delle virtù, sia aliena dalla pietà genuina ». Infatti Francesco di Sales (che pure fu padre spirituale di Madre Angelica, la badessa di PortRoyal, divenuto in seguito il principale focolaio dei rigori del giansenismo) non si fa scrupolo di difendere la comunione frequente e la dolcezza verso se stessi; il che suona risposta anche pastorale alla severità dei calvinisti, con la quale il nobile ecclesiastico si era a lungo misurato fin dai primi anni di sacerdozio.
Come sempre avviene quando intervengono i successori, tuttavia, proprio questi due punti di forza dell’insegnamento salesiano – privato dagli epigoni del necessario equilibrio e portato alle estreme conseguenze – daranno origine anche ai vizi cui la Filotea ha indirettamente contribuito nell’ascetica cattolica: il devozionismo dolciastro (già Bossuet aveva accusato il Sales di quietismo) e il distacco del cristianesimo dalle fonti. In effetti, è accaduto che generazioni di cristiani si siano formati più su quel libro e sulle sue imitazioni che sul Vangelo, al punto che la fede ha spesso preso l’immagine d’una sequenza di «pie pratiche» – le «devozioni », appunto – e di esercizi virtuosi in vista del raggiungimento di una perfezione alquanto astratta; una separazione di fatto tra vita e religione, ovvero l’esatto contrario di quanto san Francesco desiderava.
La Filotea e i prodotti simili (molto diffusa per tutto il Novecento fu l’opera omonima compilata da padre Giuseppe Riva) sono così diventati paradossalmente il parallelo «per laici» – anzi: per laiche – del breviario dei preti, anche dal punto di vista editoriale: le donne più zelanti, ricevuto il libretto in dono alla prima comunione o alle nozze, per tutta la vita lo portavano in chiesa per consultarlo durante la messa oppure lo tenevano a capo del letto per «fare le devozioni», all’inizio e alla fine della giornata. In questo senso Hans Urs von Balthasar assegna a Francesco di Sales il titolo – non solo onorifico – di «fondatore della spiritualité ».
Non occorrerebbe invece esaltare una certa «modernità» della Filotea;
basta leggerne – per esempio – le annotazioni che condannano la fretta, il capitolo sulla possibilità di osservare la povertà di spirito anche nelle ricchezze, i consigli sui
flirts amorosi o sulla sessualità nel matrimonio. Non per nulla, ancora oggi qualcuno sul Web ha intitolato il suo sito di riflessioni religiose o un blog di meditazioni proprio a lei: la vecchia, amata, intramontabile
Filotea.