«Quanti conformisti nel gelo di Stalin»
Viktor Erofeev si presenta al pubblico ironizzando su se stesso. Il mio nome, dice, è composto da due parole greche che vogliono dire amore e Dio, dunque Erofeev è "Dio dell’amore". Di Erofeev il lettore italiano conosceva soprattutto un libro, La bella di Mosca, uscito in Italia nel 1991. L’anno scorso Einaudi ha invece pubblicato il romanzo-autobiografia, Il buon Stalin, racconto di uomo che visse una "felice infanzia staliniana".
Presentandolo al pubblico, Pia Pera nota che tanto quella definizione d’infanzia, quanto il titolo del romanzo rivelano una sostanza ossimorica, che tiene insieme i contrari. Ed è un po’ la cifra poetica e umana di questo scrittore russo, figlio di un alto funzionario sovietico (fu anche ambasciatore a Parigi), che indaga nella sua storia per capire se il padre fu una brava persona oppure un detestabile protagonista di quel sistema criminoso. «Scrivere sulla propria infanzia è aprire nuove prospettive alla propria memoria», dice. «A un certo punto, è come se la tua infanzia fosse una calotta di ghiaccio che si scioglie e sotto appari tu». Scrivere quest’autobiografia, per Erofeev, non ha significato però anzitutto comporre un j’accuse verso il sistema sovietico. Anche se la sua idea, in merito, è precisa, e quando gli chiedo che cosa pensa della notizia fresca di questi giorni cui Arcipelago gulag diventa libro obbligatorio nelle scuole russe, commenta: «Non posso che esserne contento, perché è un libro importante. Agli studenti verranno fornite le prove non solo dei gulag, ma anche del fatto che si trattò di uno dei più grandi crimini del XX secolo».
L’ironia che brilla spesso nel suo sguardo, anche in questo caso viene fuori: «La cosa più importante però è che non diventi una lettura formalistica, così che poi domani qualche studente non dica: odio Solzenicyn perché ho preso un brutto voto a scuola».
A proposito di scrittori, nel romanzo – che Erofeev ribadisce essere una "finzione" dove «tutte i personaggi sono inventati, comprese le persone reali e l’autore stesso» – si dice un paio di volte che Brodskij, il poeta russo premio Nobel, era un conformista. Gli chiedo che cosa intende per conformismo: «Brodskij, in un certo senso, era un generalissimo. Poneva tutti dentro categorie rigide. Diceva: tu sei bravo, tu sei medio, tu sei mediocre. Anche se era dissidente verso il sistema, in realtà ne faceva parte. E quando è andato in America applicava gli stessi criteri: tu sei un bravo giornalista, tu sei un pessimo fotografo. Secondo me, un poeta con la puzza sotto il naso è abbastanza ridicolo. Ecco che cosa intendo per conformismo».
Qualcuno sostiene che in Russia c’è sempre più nostalgia di Stalin e che Putin in qualche modo ne ha ereditato la funzione. «Ci sono due Stalin – dice Erofeev -, uno Stalin comunista, e questo non piace a nessuno; e uno Stalin imperialista, e questo suscita un sentimento di nostalgia in almeno metà dei russi. Putin ha commesso un grave errore, ha detto che la Russia di oggi è l’erede dell’Unione Sovietica, e ha persino riprodotto certe logiche dello stalinismo sul piano della politica interna. Così ha risuscitato quell’atteggiamento imperialista che segna molta storia della Russia».
Leggendo il romanzo di Erofeev non si avverte risentimento verso il padre (o i padri, nel senso della storia sovietica nella quale è cresciuto da bambino).
Anzi, si coglie una pietas ironica che si trasmette anche nel titolo. «In effetti – dice – quando scrivevo questo libro avevo pensato di intitolarlo Genitori e figli, ma poi mi sono ricordato del libro di Turgenev. Evidentemente per me "buon Stalin" ha un significato ironico. Però qualcuno in Occidente mi ha criticato: "Ma che titolo!". Quando è uscito in Russia si sono formate delle code di lettori, anche anziani, che volevano acquistarlo: ho detto, no, vi prego, non vorrei che leggendolo vi venisse un infarto. Spero, in ogni caso, di vivere fino a quando in Russia questo titolo avrà acquisito un’accezione negativa».
Si può capire la perplessità di chi legge un titolo dove a Stalin viene associato l’aggettivo "buono". Fa pensare al "buon padre Stalin" della propaganda sovietica… «Ogni padre – spiega Erofeev – in Russia, come in Italia come in Inghilterra, è un "buon Stalin", nel senso che fornisce ai figli l’educazione gratuitamente… Io ho avuto "una felice infanzia staliniana" perché mio padre ha lavorato a contatto con Stalin, anche se poi ha rischiato, quando Molotov cadde in disgrazia, di finir male, ma a quel punto Stalin è morto e tutto per mio padre cambiò… Infine, se prendiamo la Russia nel suo complesso, dobbiamo dire che essa ama ogni "buon Stalin" che sappia gestire il Paese, uno che tutti temano ma al contempo amino. È in questo senso che prima dicevo che il "buon Stalin" è il padre della nazione in quanto padre imperialista».
Alla fine del romanzo, il giudizio sul padre è quello di chi lo ama come figlio, ma ne vede anche la progressiva solitudine: «Muoiono tutti quanti attorno a lui, e rimane lui soltanto». Erofeev ribadisce che la sua autobiografia è un libro su quanto avvenuto, ma è anche un gioco su quanto è avvenuto. Qui, però, il gioco, o la finzione, diventa serio e la commedia porta alla luce anche la tragedia.