MYANMAR, ROMPERE LA MORSA QUEI DITTATORI AFFAMANO IL LORO POPOLO
di ANDREA LAVAZZA Non c’è limite al cinismo della giunta che comanda in Myanmar con il pugno di ferro dal 1962. Non paga di aver confermato nel mezzo di un’immane catastrofe il referendum farsa sulla nuova costituzione (si distribuiscono schede già compilate, dicono i testimoni), sta sfruttando il disastro per stringere ulteriormente la morsa sul Paese. Proprio nel momento in cui la mobilitazione internazionale seguita alla rivolta dei monaci buddhisti poteva fare vacillare le basi su cui si puntella il regime. Ieri, la televisione di Stato alternava inviti a recarsi alle urne (esentate solo le zone colpite dal ciclone) alle immagini dei patetici soccorsi: consegna di pacchi con graziosa dedica di qualche alto ufficiale delle Forze Armate. Un’inquadratura rivelava il nome di Mynt Shwe, uno dei protagonisti della recente repressione, scritto su una cassa a grandi lettere, che sovrastavano la dicitura «aiuti dal Regno di Thailandia».
Ma non è solo la propaganda, tipica di ogni dittatura, che fa indignare il mondo libero: farmaci, cibo e tende vengono fatti arrivare con il contagocce e distribuiti in modo selettivo, come hanno riferito i pochi operatori umanitari presenti. Appena giunto oltre frontiera, il primo convoglio dell’Onu è stato requisito dalle autorità, che faranno sparire il materiale oppure lo dirotteranno in maniera mirata, senza considerare le vere necessità della popolazione. Lo scopo è chiaro: rafforzare la dipendenza della popolazione dai militari, padri-padroni della nazione, dispensatori di ogni beneficio e inflessibili castigatori di qualsiasi forma di dissidenza.
Di fronte alla colpevole e strumentale inerzia di un governo che ha sottovalutato l’allarme preventivo lanciato dall’India e fa ora ben poco per le centinaia di migliaia di sopravvissuti all’alluvione, rimasti senza nulla, ci si deve seriamente interrogare sul ruolo e le possibilità d’intervento della comunità internazionale.
Nel suo discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, lo scorso 18 aprile, papa Benedetto XVI richiamò con forza il «principio della responsabilità di proteggere». Ogni Stato – disse il Pontefice – ha il dovere primario di tutelare la propria popolazione da violazioni gravi e continue dei diritti umani, come pure dalle conseguenze delle crisi umanitarie, provocate sia dalla natura sia dall’uomo. E i generali del Myanmar stanno platealmente venendo meno a tale obbligo. La Francia ha cercato di portare la questione in Consiglio di sicurezza (scontrandosi con il no della Cina, grande sponsor del regime).
Per scavalcare il blocco, Parigi ha proposto di paracadutare i soccorsi direttamente alla popolazione, ma ha raccolto solo perplessità di tipo politico («mossa incendiara», secondo Londra; potrebbe suscitare rappresaglie) e di ordine pratico (pericoloso lanciare carichi, rischio di resse, e di vendette su chi accetta soccorsi stranieri). «Se gli Stati non sono in grado di garantire simile protezione, la comunità internazionale deve intervenire con i mezzi giuridici previsti dalla Carta Onu », ricordò tuttavia Ratzinger, sottolineando come tale azione, «supposto il rispetto dei principi che sono alla base dell’ordine internazionale, non deve mai essere interpretata come un’imposizione indesiderata e una limitazione di sovranità. Al contrario, sono l’indifferenza o la mancanza di intervento che recano danno reale».
I danni si potrebbero chiamare, in questo caso, migliaia di morti per epidemie e per inedia. Se non è pensabile scortare i camion con i carrarmati, si minaccino durissime sanzioni politiche ed economiche. È ancora possibile mantenere relazioni diplomatiche con la giunta che ama il lusso e affama il suo popolo prostrato dalle calamità? Si possono lasciare spiragli di relazioni commerciali con un governo che usa i disastri per aumentare la repressione? Non lasciamo che una volta di più l’Onu si riveli soltanto il megafono di appelli inascoltati. Abbiamo una «responsabilità di proteggere» i disperati di Myanmar.