“Avvenire”, 18.10.02
INCHIESTA
Stampano riviste, fanno campagne Ma qual è il peso della loro cultura nella
società italiana?
Mondin: «Molto attenti alla giustizia, meno allo spirito» Padre Sorge: «Non
siamo capaci di farci ascoltare» Sesana: «Tornare in patria più spesso per
fare mediazione»
Di Roberto Beretta
Missionari senza cultura? Ma sì, buttiamola sul drastico. Del resto, non si
può forse dire che la missione in Italia non influisce più – o poco – sulla
cultura della gente, degli intellettuali, della Chiesa?
«L’Armata Brancaleone e la Bella Addormentata»: così ha titolato il suo
dossier il mensile Mondo e missione. Dove Gerolamo Fazzini risponde in
chiaroscuro alla domanda «Ma la missione fa cultura?». Sì, scrive il
condirettore della rivista del Pime, i martiri sono tornati di moda;
personaggi come padre Alex Zanotelli e padre Piero Gheddo «continuano a
tenere banco sui giornali ed a riempire auditorium e sale», così come da
decenni fanno tanti altri missionari meno noti con le loro testimonianze e
conferenze in parrocchie e centri culturali; i libri della Emi «scalano le
classifiche di vendita». Però… Però «basta tutto ciò per considerare ass
olto il contributo culturale dei missionari alla Chiesa e alla società
italiana?».
L’inchiesta, per bocca degli interessati medesimi, evidenzia le pecche. Il
turn over del personale – oggi qui, domani all’estero – ostacola la
continuità della presenza nella società italiana. La pluralità degli
Istituti ad gentes complica la realizzazione di iniziative comuni: e «non
bastano l’impegno generoso e la buona volontà per sfondare l’indifferenza».
La partecipazione a iniziative laiche (campagne, marce, boicottaggi)
nasconde il «pericolo di confondersi nella massa, perdendo la propria
identità». L’intervistato Lorenzo Ornaghi, neo-rettore dell’Università
Cattolica, sintetizza: il «contributo culturale» dei missionari italiani è
«ampiamente sottovalutato».
L’analisi però va messa alla prova. Padr e Giovanni Battista Mondin, già
professore di filosofia all’Urbaniana (100 libri in 50 anni di messa) è un
accademico professionista e insieme un saveriano; cioè appartiene a un
Istituto schiettamente missionario. Padre, è vero che i suoi confratelli non
fanno più cultura? «Non credo. Anzi, c’è da parte delle nostre riviste
maggior attenzione ai problemi attuali: per esempio la vendita di armi al
terzo mondo, l’allarme ecologico, la globalizzazione… Mi pare che siano
proprio i missionari a tener vivi problemi del genere nella coscienza dei
cattolici, e nella società italiana».
Sì, ma poi – proprio su tali argomenti – i missionari non dicono nulla di
“diverso” dagli altri. E dove sta allora il loro peso specifico? «È vero. La
globalizzazione, ad esempio, viene affrontata come tema meramente economico,
mentre il punto di vista dovrebbe essere morale e culturale. E non mi sembra
che questa sia la prospettiva della maggioranza dei missionari. Mi pare che
essi si preoccupino più della giustizia, che è un valore fondamentale; ma
non il primo. Non c’è un progetto culturale ben dipanato, da cui traspaia la
centralità della persona».
Da qualche anno anche un altro ben noto intellettuale cattolico, padre
Bartolomeo Sorge, dirige il mensile missionario dei gesuiti Popoli. Che ne
pensa, padre Sorge, del presunto deficit culturale del settore ad gentes?
«Oggi tutto è cambiato profondamente, con la globalizzazione e i flussi
migratori la missione l’abbiamo in casa. La figura del partente è sempre
fondamentale, ma non è più il canale unico di comunicazione. Occorre
pertanto compiere un salto di maturità, bisogna trovare altre forme per
sostentare la stessa passione evangelica di una volta».
Dopo l’11 settembre i missi onari sarebbero dovuti essere assai più presenti
nello scambio culturale, visto che sanno parecchio di dialogo
interreligioso, islam, integralismi. Però, nella colluvie di saggi commenti
analisi usciti a ridosso delle Twin Towers, la loro parola è stata
rarissima. Perché? «Forse nel frastuono la voce dei missionari non è stata
capace di farsi ascoltare. Mi pare però che le prese di posizione sia della
gerarchia sia dei centri culturali cattolici siano state chiare e puntuali:
attenti a non cadere nelle guerre di religione, sì alla lotta al terrorismo
ma non allo scontro di civiltà».
Negli anni ’60 e ’70 la testimonianza dei missionari riusciva ad animare
grandi campagne d’opinione: contro la fame nel mondo o per lo sviluppo dei
popoli e – più tardi, nel decennio ’80 – per la cooperazione col terzo
mondo. Padre Renato Kizito Sesana, comboniano con vaste esperienze di
comunicatore (per le Paoline &egr ave; appena uscito a sua firma La perla
nera) le ricorda; perché oggi non succede più? «In verità la missione fa più
informazione adesso che non una volta; pensiamo alle nuove agenzie di stampa
on line, come Misna o Fides: più qualificate, più attente persino
all’economia o alla politica e capaci di smuovere in questi settori
l’opinione pubblica (vedi la recente campagna sull’annullamento del debito
estero). In certi àmbiti, non specificamente religiosi, direi anzi che la
missione fa cultura più che negli anni Sessanta».
Siete diventati più «laici», ma anche più «generici»: si può dire così?
«Senza dubbio: oggi l’animazione missionaria in Italia si gioca soprattutto
su argomenti economici e sociali. L’ideale sarebbe riuscire a tener presente
anche i temi religiosi». Sennò poi succede come a Genova, luglio 2001: dove,
con tutta la loro buona volontà, i missionari sono stati sopraffatti dalle
«tute nere»… «Anche a me sembra. Noi, che siamo stati pionieri nel far
crescere la consapevolezza sociale sulla globalizzazione o sul razzismo, al
dunque non siamo stati capaci di gestire il movimento. Forse siamo poco
abituati alla cattiveria della lotta politica, chissà. Certo abbiamo ceduto
troppo al gusto degli slogan contro le multinazionali o contro l'”impero del
male”, il mercato: ma il problema della divisione tra ricchi e poveri è così
complesso e delicato che non può essere risolto con analisi superficiali».
Lei avrebbe una strategia da consigliare, per aumentare il peso culturale
dei missionari? «Piuttosto qualche stratagemma. Per esempio: gli Istituti
religiosi restano ancorati all’idea di lasciare i loro membri in missione il
più a lungo possibile. Ma il missionario ch e torna dopo 10 anni non sa più
cosa dire, la gente non lo capisce più e lui non comprende più il contesto.
Invece sarebbe significativo se si facesse più frequentemente la spola. In
futuro il missionario dovrà essere un mediatore culturale».