GIOVANNI GUARESCHI, Don Camillo e don Chichì. (Don Camillo e i giovani d’oggi), Milano, BUR, 2000, pp. XXIV+232, € 6,50
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Siamo negli anni ‘60, e il paese di don Camillo è invaso dal benessere, la sua parrocchia è invasa dal post-concilio, mentre la sua quiete è distrutta dalla terribile nipotina Cat, «diminutivo di Caterpillar». Anche Peppone, benché ingrassato più che invecchiato, non se la passa troppo bene tra un figlio capellone, Michele detto Veleno, e l’opposizione interna dei duri e puri maoisti, i “cinesi” capeggiati dal nuovo farmacista, il dott. Bognoni. In questo libro – l’ultimo di Guareschi, che morì mentre correggeva le bozze – sull’immancabile battibecco tra il parroco e il sindaco comunista, risalta piuttosto il comune buon senso dei due, che ancora ragionano con la propria testa e parlano la propria lingua, nel momento in cui anche molti preti (s)ragionano con i luoghi comuni della contestazione a oltranza e persino i pulpiti diffondono la sessantottesca «lingua di legno».
«Erano i tempi del benessere. Non si sa bene come funzionasse questa faccenda, ma doveva essere una cosa ben congegnata perché la gente lavorava sempre di meno e guadagnava sempre di più. Questo benessere aveva portato un sacco di novità: night, cabaret, spogliarelli, festival, whisky a gogò, cinema sexy, musica beat, moda beat, perfino Messe beat.
Le donne non allattavano più i bambini ma li allevavano con mangimi in scatola, cibi surgelati, cibi caldi delle rosticcerie, salumerie, friggitorie.
Questo benessere obbligava ogni famiglia ad avere una casa razionale piena di “zone”, a comprare e a far funzionare un’automobile, un televisore, una quantità enorme di elettrodomestici; a spostarsi settimanalmente da casa per il week-end e a trascorrere le vacanze estive al mare, ai monti, in crociera
Tutte cose bellissime ma che costano molto danaro: quindi chi viveva del suo lavoro era costretto a fare continui scioperi per avere una paga maggiore; chi non aveva un lavoro si arrangiava in vari modi».
Peppone si adegua al nuovo corso trasformando la sua officina «in un grande emporio dove si vendevano a rate automobili, motociclette ed elettrodomestici d’ogni genere», ma il dott. Bognoni naturalmente lo accusa di far imborghesire il popolo: « “Tu, compagno Bottazzi,” aveva detto il Bognoni a Peppone “dai al popolo l’illusione di aver conquistato il benessere, dimenticando che la rivoluzione la si può fare quando il popolo soffre” “Nessuno può impedire al popolo di soffrire anche se ha la Seicento, il televisore, il frigo e la lavatrice” aveva replicato Peppone che essendo uomo del popolo ne conosceva i dolori segreti».
La spina nel fianco di don Camillo è invece don Francesco, «un giovanotto magro, vestito di grigio, con occhiali da intellettuale e una busta di pelle sotto il braccio», inviato dalla curia per indurlo ad «aggiornarsi», e presto soprannominato don Chichì «per quella sua personcina asciutta e nervosa, per quel suo clargyman attillatino, per quel suo continuo agitarsi e scodinzolare […]». L’imperativo di don Chichì è demistificare tutto, compreso l’altar maggiore da sostituire con la «tavola calda», come la chiamava don Camillo:
«[…] Voi rimarreste sempre il Figlio di Dio onnipotente anche se distruggessero le vostre immagini, ma io non permetterò mai che vi buttino fra gli arnesi fuori uso in solaio”.
“Don Camillo,” lo ammonì il Cristo “tu non parli di me. Tu parli di un pezzo di legno dipinto”. “Signore, la patria non è quel pezzo di tela colorata che si chiama bandiera. Però non si può trattare la bandiera della patria come uno straccio. E voi siete la mia bandiera, Signore […]».
Naturalmente gli schemi ideologici del pretino non reggono alla prova dei fatti:
« “No, don Camillo. Lasci fare a me. Io so come vanno trattati questi giovani. Non badi al loro conformismo: sono molto migliori di quanto lei non creda”. […] Lo lasciarono dire per qualche minuto, poi la ragazza [Cat] lanciò un fischio e i sei balzarono giù dalle motociclette e saltarono addosso al pretino seppellendolo sotto un temporale di pugni e calci».
Don Chichì troverà tuttavia un valido consigliere proprio in Cat, che sembra recitare la parte del diavolo – mentre Veleno si dimostra spesso un provvidenziale «san Michele», pronto ad intervenire quando la ragazza ne combina di tutti i colori -, un diavolo suggeritore che si diverte a sollecitare le potenzialità ideologiche del pretino e la sua antipatia per i vecchi parroci. Cat si dimostra davvero esperta di «spirito del Concilio» – ben diverso dal Concilio vero – e don Chichì applica i suoi consigli, intensificando dal pulpito le invettive contro i ricchi, contro coloro che sono stati in guerra, ecc. «Parecchia gente disertò la Messa e don Camillo, incontrato il Pinetti, gli domandò perché mai non si facesse più vedere in chiesa.
“Io” rispose l’altro “ho lavorato onestamente tutta la vita per avere quello che ho e non mi va di venire in chiesa per sentirmi insultare da don Chichì.”
“In chiesa non si va per rispetto del prete ma per rispetto di Dio. E non andando in chiesa di fa dispetto a Dio, non al prete.” “Sì, reverendo: il mio cervello lo capisce, ma il mio fegato no.”
Non si trattava di un gran ragionamento, però aveva una sua logica e, siccome le defezioni aumentavano, don Camillo ne parlò col pretino.
“ […] Il ricco è un ladro ed è quindi esatto dire che la proprietà è un furto. La Chiesa di Cristo è la Chiesa dei poveri perché solo dei poveri è il Regno dei Cieli.”
“La povertà è una disgrazia, non un merito” replicò don Camillo […]».
Come spesso accade, gli «ultimi» che certi ecclesiastici considerano unici interlocutori degni di attenzione, si rivelano inesistenti: nel paese di don Camillo non ci sono «creature respinte ai margini della società», né «rottami umani costretti a mendicare», né «peccatrici che si vendono per un pezzo di pane», né «disgraziate ragazze sedotte e abbandonate».
« “Vuol dire che non ci sono nemmeno ragazze-madri?” domandò con molto sarcasmo don Chichì.
[…] Entrò la vecchia Desolina con la posta.
“Può incominciare subito il suo lavoro” disse al pretino. “La Desolina è proprio una di quelle povere disgraziate alle quali lei intende portare Cristo.”
“Disgraziato sarà lui!” disse la Desolina indicando con un cenno don Chichì. “In quanto a Cristo, so dove trovarlo, senza bisogno di questo prete a mezzo servizio.”
[…] “Ma si può sapere in quale mai selvaggio paese sono capitato?” urlò don Chichì.
Don Camillo spalancò le braccia:
“Non le resta che pregare il Signore di mandare anche qui dei pezzenti, delle donne perdute, e delle ragazze-madri respinte dalla società”».
Non si può infine rifiutare all’aspirante lettore un’ultimo assaggio di questo libro, nel memorabile scambio di battute tra don Camillo, che si sta preparando a celebrare una «Messa in suffragio delle anime dei morti d’Ungheria» appendendo il ritratto del cardinale Mindszenty, e l’indignato don Chichì che osserva:
« “Perché questa smania di martirio? Non avrebbe potuto trovare anche lui un modus vivendi con l’autorità del suo paese?”
“Bisogna compatirlo” rispose don Camillo. “È stato portato fuori strada da quell’altro tizio che s’è fatto inchiodare sulla croce. I soliti estremismi”».
Questi racconti che a prima vista potrebbero far pensare ad un «crepuscolo» del Mondo Piccolo, ci dimostrano invece la perenne vitalità del messaggio di Guareschi, che ha ancora molto da dirci – forse, ancora di più ora che tante ubriacature, ecclesiali e non, stanno rivelando i propri punti deboli. Ancora una volta dalle figure di don Camillo e Peppone non traspare altro che il sano realismo cristiano, la consapevolezza cioè che il mondo si può cambiare certamente, ma cominciando ad accettarlo per quello che è, senza impraticabili costruzioni ex-novo che richiederebbero prima di tutto di radere al suolo l’esistente; che le riforme sociali sono vane se prima non cambia il cuore dell’uomo; e che questo è possibile solo iniziando a tacere per lasciar parlare Cristo – il quale, guarda caso, parla solo a don Camillo, mentre don Chichì a forza di parlare di «dialogo» fa un tale baccano da non riuscire a sentire la voce del Cristo…
In chiusura il recensore si concede una piccola osservazione sarcastica: siamo nel 2005, e don Chichì, che in illo tempore sembrava davvero l’«avanguardia» ecclesiale, ha verosimilmente raggiunto i settant’anni, è diventato un grigio teologo progressista, con la casa piena di libri e priva di inginocchiatoi, o un vescovo prossimo alla pensione, con la mente piena di piani pastorali e il seminario vuoto, in entrambi i casi amareggiato perché in questi decenni la Chiesa è andata molto avanti, ma non come sarebbe piaciuto a lui, deluso dal fatto che il vero uomo del Concilio è stato un papa impregnato di misticismo polacco e con la fissazione del Rosario, e il cui successore, pur essendo un professorone tedesco, si abbassa continuamente a parlare del Catechismo e di Gesù sacramentato, proprio come il più incolto dei «vecchi parroci»…
Deo gratias!
Stefano Chiappalone