Palazzo di Vetro. Il momento del riscatto Fermezza. Questa appare la chiave di volta di qualunque approccio
che non si voglia votato all’insuccesso nei confronti non già
dell’Iraq, ma di Saddam Hussein.
I risultati di questo atteggiamento li stiamo già verificando in queste ore.
Sincere o meno che siano le parole di Baghdad quando dichiara di accettare il riavvio incondizionato delle ispezioni Onu, occorre
rilevare che questa è la prima notizia in “controtendenza” all’interno di un panorama finora tutto orientato all’imminenza, oltre che all’inevitabilità, dello scontro.
Chiunque auspichi davvero che l’opzione militare resti tale, ossia un’opzione non esercitata, sa bene che non esiste
alternativa alla fermezza.
Le ispezioni alle quali il regime iracheno deve accettare di sottoporsi non sono il frutto di una volontà paranoica, ma fanno parte integrante di quelle condizioni di armistizio
alle quali il “rais” deve la propria sopravvivenza politica.
Fu Saddam Hussein a dare il via al la Guerra del Golfo del 1990-1991 con l’invasione del Kuwait.
E fu grazie all’accettazione delle clausole sulle ispezioni Onu che i motori dei carri armati e dei bombardieri alleati vennero fermati prima della presa di Baghdad, e che Saddam non fece la
fine da lui stesso riservata ai suoi predecessori e rivali.
Gli Stati Uniti hanno dimostrato nelle ultime ore di voler comprendere le preoccupazioni sollevate da amici e alleati, circa la necessità di un maggior coinvolgimento delle Nazioni Unite nella questione irachena.
Un tale coinvolgimento non vuol rappresentare tuttavia un segnale di debolezza nella conduzione della guerra al terrorismo e ai
suoi sostenitori.
Al contrario, dimostra che quando la forza e il diritto procedono insieme, nella condivisione della responsabilità tremenda della pace e della guerra, la dissuasione diventa più
credibile e il ricorso effettivo alle armi si fa meno probabile.
Perché ciò non venga platealmente contraddetto dai fatti, però, è necessario che la formula del ricorso al Consiglio di Sicurezza
non si riduca a un furbo espediente, che vorrebbe legare le mani al gigante ferito, riuscendo solo a farlo ulteriormente irritare.
La credibilità dell’Onu, la sua stessa sopravvivenza a quasi sessant’anni da quella Seconda guerra mondiale dalla quale fu
generato, dipendono da come esso saprà dimostrare di essere non solo un’importante arena di dibattito e confronto, ma anche il
luogo delle decisioni: di tutte le decisioni che le circostanze impongano, nessuna esclusa.
Proprio in virtù dell’unicità e dell’insostituibilità di un’istituzione come l’Onu, apparirebbero oggi incomprensibili gli atteggiamenti di quei Paesi che, pur reclamando pubblicamente
a gran voce il coinvolgimento della suprema istituzione mondiale, dietro le quinte fanno di tutto affinché essa resti impantanata tra mille pasto ie e cavilli.
Insomma non è più tempo di doppiezze celate dietro a scaltre pratiche – “fiorentine” si direbbe in quelle medesime capitali – quasi nell’auspicio che, ancorché ci si dipinga come paladini del Palazzo di Vetro, si auspichi in realtà che la Casa Bianca faccia in solitudine il lavoro sporco.
Vittorio E. Parsi
(c) Avvenire, 18 settembre 2002