“La Stampa”, 14 ottobre 2002
L´ARCIPELAGO È IL TERRENO PIÙ FERTILE DELL´ASIA PER LE
TRAME DI OSAMA BIN LADEN
Miccia islamica nella polveriera Indonesi
Tredicimila isole in ebollizione fra scontri etnici e
religiosi
PECHINO —
AL Qaeda è tornata a colpire e lo ha fatto in Indonesia,
l´anello più debole e più pericoloso degli equilibri asiatici. Pochi dubbi
che dietro i 182 morti e i quasi 200 feriti di Bali ci sia Osama bin Laden.
I servizi di sicurezza di molti Paesi puntano il dito contro la Jamaa
Islamiya guidata da Abu Bakar Baashir, 64 anni, presidente del Consiglio dei
mujaheddin indonesiani, che predica l’applicazione della legge islamica
(sharia). Baashir non ha fatto mai mistero delle sue simpatie per Bin Laden,
ma nega di essere capo di organizzazioni filo terroriste e nega addirittura
l´esistenza della Jamaa. Baashir vive e predica nell´isola di Giava
inseguito da mandati di cattura delle polizie della Malaysia e di Singapore.
Il suo braccio militare sarebbe Raduan Isamuddin, 37 anni, detto Hambali,
architetto di molti attentati in Asia nell´ultimo decennio e sospettato
anche di aver lavorato per organizzare l´assassinio della presidente
dell´Indonesia Megawati Sukarnoputri. L´obiettivo dei terroristi è
certamente quello di destabilizzare e poi balcanizzare l´Indonesia. Il Paese
è il quarto più popoloso del mondo, e il più grande stato musulmano del
pianeta. Con i suoi oltre 200 milioni di abitanti si allarga su oltre 13
mila isole e possiede le più ricche riserve petrolifere dell´Asia orientale.
L´Indonesia è divisa in molte etnie, con varie rivendicazioni nazionali,
come gli abitanti di Aceh sull´isola di Sumatra e i Dayaki, di salgariana
memoria, del Borneo. Inoltre a Giava, dove è concentrato il maggior numero
di abitanti, esistono dispute antiche tra la maggioranza giavanese musulmana
e la minoranza di origine cinese cristiana. I rapporti tra le due etnie sono
ulteriormente complicati dal fatto che i cinesi sono circa il 5 per cento
del totale della popolazione dell´arcipelago ma controllano circa l´80 per
cento delle sue ricchezze. Questo magma dopo essere rimasto più o meno sotto
controllo per circa 30 anni è tornato incandescente dopo la crisi
finanziaria del 1997. In poche settimane la svalutazione della moneta ha
portato via 30 anni di sviluppo gettando dall´oggi al domani milioni di
persone per la strada. I successivi tentativi del Fondo monetario
internazionale di migliorare la situazione l´hanno in realtà peggiorata,
come oggi molti economisti riconoscono. Ancora oggi l´Indonesia non si è
ripresa dallo choc di cinque anni fa, e anche se quest´anno la crescita del
prodotto interno lordo dovesse assestarsi intorno a un generoso 4 per cento,
molta gente rimane senza lavoro e disperata. Questo scontento è stato il
terreno di cultura degli islamici ortodossi che fino a qualche decennio fa
erano una risicata minoranza nel Paese. L´islamismo indonesiano è stato
infatti per secoli colorato dagli apporti delle religioni locali, l´antico
animismo, l´induismo, il buddismo. Ma il revival di studi islamici promossi
e finanziati spesso dall´Arabia saudita ha rafforzato una corrente di
ortodossi che ha sua volta ha dato poi origine a frange estremiste. Come è
successo anche in Malaysia, dall´Indonesia sono partiti volontari per unirsi
alla lotta per la liberazione dell´Afghanistan. Alla fine della guerra hanno
riportato poi in patria fervore religioso ed esperienza di combattimento
contro l´oppressivo regime del presidente Suharto. Oggi la secessione di
Timor Est, le difficoltà economiche e politiche dell´arcipelago, le
pressioni dell´esercito che vorrebbe tornare a contare di più e
l´indecisione della Megawati fanno dell´Indonesia un luogo ideale per la
destabilizzazione. In tutto questo è stato colpito un luogo due volte
simbolo del Paese, Bali, enclave induista e di tolleranza religiosa, e meta
del turismo internazionale. Così le primissime vittime delle bombe saranno
il turismo e i rapporti commerciali, le minori entrate getteranno poi altra
benzina sul fuoco dello scontento sociale. Da qui una crisi politica e
sociale dell´arcipelago potrebbe dilagare in Malaysia e nella fragilissima
Singapore, città stato di appena quattro milioni di abitanti. Sarebbe poi
difficile per la Cina restare indifferente, visto che i cinesi di
nazionalità indonesiana sono da sempre le vittime predestinate delle
proteste dei musulmani. La crisi si potrebbe allargare a macchia d´olio su
tutto il continente colpendo anche le rotte dei trasporti marittimi che
arrivano fino in Giappone e in America e che oggi, come ai tempi di
Sandokan, spesso passano proprio per l´arcipelago. Sarà fondamentale nei
prossimi giorni vedere le azioni del governo e le reazioni dei partiti
islamici, maggioritari nel Paese. I movimenti da entrambe le parti sono
estremamente difficili. Ogni decisione della Megawati, donna e invisa ai
musulmani più ortodossi, rischia di avvelenare i rapporti con quella parte
di gente che negli scorsi mesi ha dimostrato a più riprese in appoggio di
Bin Laden e contro l´America. D´altro canto una eccessiva prudenza del
governo rischia di rafforzare i militanti estremisti. Così l´attentato
rivela tutti i contorni di una trappola che rischia di giocare a favore dei
terroristi comunque si agisca.