LUIGINO ZARMATI, L’incarnazione. Dal dato rivelato all’interpretazione mistica di Giovanni della Croce, saggio introduttivo di Antonio Livi, Leonardo da Vinci, Roma 2004, pp. 149.
La ricerca intrapresa dall’autore sul dogma dell’Incarnazione è un’interpretazione razionale del dato rivelato. Egli si è servito della corretta conoscenza teologica del dogma che la Chiesa (attraverso la Tradizione, la Scrittura, il Magistero) ha raggiunto e della chiarezza terminologica e concettuale della filosofia. Come Livi afferma nel suo saggio introduttivo, «Gino Zarmati non tenta l’impresa antiteologica di razionalizzare il mistero dell’Incarnazione, ma si sforza di mostrare il senso preciso dei termini con i quali il dogma è formulato» (p.19).
L’enunciato dogmatico è chiaro nei suoi termini, ma questi a loro volta sono termini che possiedono un significato ineffabile perché sono riferiti ad una realtà che, dopo la Rivelazione, si può conoscere ma non comprendere.
Per l’incapacità di raggiungere una comprensione esaustiva dei misteri della Rivelazione la ragione li accetta con l’atto di fede, il quale presuppone il senso comune, ovvero la certezza dell’esistenza del mondo, dell’io e degli altri quali soggetti, della legge morale e di Dio.
I termini con cui il dogma è proposto sono termini fattuali ed esistenziali, proprio come lo sono quelli con i quali potrebbero esprimersi le certezze del senso comune; per questo i dogmi della Rivelazione, pur non essendo comprensibili appieno nel loro contenuto essenziale, sono comunque conoscibili nei loro dati di fatto esistenziali. I termini del dogma -– come quelli del senso comune – sono ricavati dalla metafisica ed esprimono le dimensioni metafisiche del concreto, ossia quelle dimensioni della realtà che hanno un carattere “indicale” senza per questo eliminare il mistero. Per tale motivo il dato rivelato può essere compreso – nella sua espressione indicale – e creduto da tutti gli uomini (indipendentemente dal proprio bagaglio culturale) sulla base del senso comune, che precede e fonda ogni ulteriore approfondimento e tentativo di comprensione, visto che l’interpretazione razionale resta sempre parziale e problematica: «La coscienza del limite cognitivo e il rispetto del mistero – precisa Livi – non comportano necessariamente l’agnosticismo o l’epoché scettica. Per una certezza assoluta della verità di un evento o di una situazione di fatto non occorre che ci sia anche la comprensione razionale piena del “perché” e del “come” di quell’evento e di quella situazione» (p.20).
Il senso comune costituisce le sole premesse razionali della fede nella Rivelazione. La razionalità universale e anipotetica del senso comune si distingue dal carattere particolare e ipotetico della filosofia e per questo è lo strumento ermeneutico necessario e sufficiente del dogma. La Chiesa non fa uso di alcun sistema filosofico, ma la razionalità intrinseca alla fede non può essere sviluppata se non con categorie filosofiche e queste, a loro volta, non possono non essere omogenee e coerenti con il senso comune il quale, costituendo le premesse razionali della fede, è rilevabile all’interno della fede stessa come dato evidente dell’autocoscienza della fede: «La fede, nel prendere coscienza di sé, non può non rilevare i suoi presupposti razionali (riconducibili a quelli che venivano chiamati i præambula fidei e i motiva credibilitatis) e pertanto la compatibilità o meno di determinati sistemi di pensiero o metodi dialettici con tali presupposti» (p.29).
L’Incarnazione è uno dei misteri principali della fede cristiana. L’espressione linguistica “incarnazione” è tratta dai testi dell’evangelista Giovanni ed è un termine che vuole indicare la venuta di Cristo nel mondo, cercando di mantenere nel significato la profondità del mistero. Nel prologo giovanneo troviamo scritto: «Il Verbo si è fatto carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv, 1,14). Il farsi carne del Verbo di Dio significa che Egli ha fatto il suo ingresso nella storia, assumendo – Lui che è puro spirito – la nostra stessa natura di uomini. Questo evento ci è rivelato come la nascita nella carne di Gesù, il quale non per questo cessa di essere il Logos eterno, nel quale e per il quale sono state fatte tutte le cose. Per mezzo della Vergine Maria, il Figlio di Dio si è fatto uomo e ha acquisito la condizione umana.
Zarmati sottolinea che per quanto riguarda il mistero dell’Incarnazione è più opportuno adottare l’espressione “fatto carne” (o “fatto uomo”), che “assunto nella carne”, in quanto l’aggettivo “assunto” – dal latino adsumptus, participio passato del verbo adsumere, composto dalla proposizione “ad” (sopra) e dal verbo “sumere” (prendere) –, significa che qualcuno “ha preso su di sé” qualcosa: «Gesù, invece, non ha preso nulla su di Sé, ma essendosi in-carnato, è entrato in una carne» (p.142). È importante ricordare che ciò che il Figlio di Dio ha assunto, ovvero ha preso su di Sé, sono le colpe dei peccati degli uomini, senza per questo macchiarsi Lui stesso del peccato, e con l’offerta totale di se stesso, con la sua morte e resurrezione ci ha redenti, facendoci figli di Dio ed eredi della vita eterna. Ecco allora che il mistero dell’Incarnazione è il cuore del progetto salvifico di Dio per l’uomo, in quanto è l’evento che nel Vecchio Testamento si attende e l’inizio della redenzione nel Nuovo Testamento.
In Gesù si deve riconoscere la coesistenza di due nature, umana e divina, in un unico soggetto, ovvero in un’unica persona. Le due nature costituiscono due princìpi distinti dell’agire stesso di Gesù, ma poiché appartengono alla stessa persona, sono unite fra di loro. Non è possibile parlare né di unione sostanziale, ovvero di identità tra Dio e Cristo, perché ciò non mantiene una distinzione che pure fra le due nature rimane, né di unione accidentale perché questa permette fra loro solo un legame tenue. È corretto, invece, affermare una unione personale fra le due nature, le quali sono unite in quanto sono inserite nella stessa persona. L’unica persona di Gesù è quella divina, dato che è questa che si è fatta carne: «La natura umana non Gli ha fatto acquistare un nuovo essere personale, ma solo una nuova relazione con l’essere personale preesistente (della natura divina) così che si possa dire che quella persona sussiste oltre che secondo la natura divina anche secondo la natura umana [TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiæ, III, q. 17, a. 2.]» (p.46). Proprio in base a tale verità sia gli atti umani che quelli divini sono sempre riferiti all’unico soggetto che è Gesù, Dio-Uomo. Per questo sono vere le affermazioni: «Dio è nato», «Dio è morto» e «Dio è risorto».
Tommaso d’Aquino parla di convenienza e non di necessità per spiegare il motivo che ha spinto Dio ha divenire uomo. Il termine “convenienza” – dal verbo latino con-venire – significa “venire incontro” e Dio ha disposto che tutto fosse rivolto al bene dell’uomo. Dalla Scrittura sappiamo che il Figlio si è fatto uomo per porre rimedio al peccato originale causato dall’uomo e dalla donna, ma Tommaso scorge nella volontà di Dio anche un secondo motivo, quello di divinizzare l’uomo. Per mezzo dell’Incarnazione Dio ha completato il Suo progetto creativo riconducendo a Sé la creatura, la quale è ora resa degna del proprio fine grazie alla comunione con la seconda persona della Trinità.
I privilegi che l’uomo ha acquisito tramite la venuta di Cristo sono superiori a quelli che erano stati per lui stabiliti nella creazione e che ha perso con il peccato; questo perché, come sostiene Agostino, Dio sa ricavare il bene anche dal male. L’uomo aveva ridotto la carne e il creato a mezzi e occasioni di peccato, per questo un altro uomo doveva liberare quella stessa carne: «Quest’uomo non poteva che essere il Figlio proprio perché come “carne” era immune da quel peccato […]. Inoltre, non poteva che essere il Figlio a farsi carne […] perché il farsi carne ha comportato una nuova generazione (diversa da quella eterna), e il Padre, essendo il principio, e quindi il generante non poteva essere Egli stesso il generato. Neppure poteva incarnarsi lo Spirito Santo perché questi deriva dalla eterna “processione” del Padre e del Figlio. Ora, se pro-cede da entrambi e non è generato, non poteva essere generato neppure nella carne» (p.65).
All’inizio dell’età moderna Giovanni della Croce ha indicato la via della contemplazione della vita di Cristo riproponendo in versi l’insegnamento biblico dell’Incarnazione basandosi sull’ispirazione mistica. Non si è addentrato nelle riflessioni teologiche: non si è posto il problema di come sia stato possibile che il Figlio di Dio si sia potuto incarnare, né si è interrogato sui termini “persona” e “natura” ai quali si ricorre nel parlare di Gesù, ma in versi ha parlato dell’amore fedele di uno Sposo (Cristo) per la Sua sposa (l’umanità).
Lo scopo del farsi carne di Gesù è quello di riscattare l’umanità (sposa) dalla legge mosaica, la quale si era trasformata in una macina al collo a causa degli innumerevoli precetti imposti da scribi e farisei: «E il modo migliore per liberare la sposa è stato che lo Sposo diventasse Egli stesso “carne” come la sposa. […] Infatti, la sposa, vedendo che lo Sposo partecipava alle sue sofferenze, era sicura di essere amata fino in fondo» (126).
Per Giovanni della Croce l’Incarnazione è stata una delle opere ad ex-tra più grande che il Padre abbia realizzato e supera lo stesso atto creativo, tanto che le creature sono a suo confronto «opere minori di [quello stesso] Dio» (p.126). Egli ci presenta il mistero come lo si ritrova descritto nelle Sacre Scritture, ma l’esposizione poetica ne esprime l’interpretazione contemplativa dello stesso autore che tenta di comunicare l’esperienza della sua unione mistica con Dio.
Con il farsi carne del Figlio, l’uomo e tutte le creature sono state innalzate alla bellezza di Dio in modo completo: «La “carne” è indubbiamente molto di più di un’immagine, è l’immagine concretizzata. Pertanto, glorificando l’Incarnazione e la Resurrezione carnale del Figlio, il Padre, non abbellì solo in parte le creature ma le rivestì completamente di bellezza e di dignità» (p.85).
Come avevamo premesso all’inizio, la ricerca di Zarmati è rigorosamente teologica ed è un richiamo per tutte quelle interpretazioni di stampo razionalistico a causa delle quali il dogma dell’Incarnazione viene interpretato come “simbolo” di qualcosa di generico e di metastorico. Queste moderne interpretazioni avanzano la pretesa di poter affermare che Cristo sia il simbolo vivente della totalità della realtà: umana, divina e cosmica. Ripudiano la realtà sostanziale e storica della persona di Gesù proponendo il concetto di “mito” per spiegare l’Incarnazione. Al contrario come evidenzia l’arcivescovo di Milano, il cardinale Dionigi Tettamanzi, nel suo Messaggio ai fedeli della diocesi di Milano (14 settembre 2003): «Alla luce della fede rispondiamo che Gesù di Nazaret è […] “vero Dio e vero uomo”. […] Di qui la assoluta novità e unicità di Gesù nei confronti di qualsiasi realtà, persona o religione, e la sua totale singolarità e irriducibilità a qualunque altro profeta, capo religioso o presunta divinità» (p.9).
Valentina Pelliccia
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