di Michele Brambilla
Quanto dolore prova un cattolico nel sentire un monsignore di Curia che attinge al più tristo vocabolario sessantottino per bollare come «fascista» una cosa che ritiene sbagliata, o più semplicemente che non gli piace. Con un «fascista» negli anni Settanta si marchiava tutto ciò che faceva schifo: erano «fascisti» i violenti e i prepotenti a prescindere dalle loro idee politiche, era «fascista» qualsiasi autorità, le insufficienze a scuola, la mano morta sul tram, il formaggio andato a male. L’altro giorno monsignor Gianfranco Bottoni, responsabile delle relazioni ecumeniche e interreligiose della diocesi di Milano, ha riesumato l’epiteto, ormai in disuso anche presso i sinceri democratici dei girotondi, e ha bollato così, come «fascista», l’intenzione del ministro Maroni di spostare i quattromila musulmani che ogni venerdì riempiono per la preghiera i marciapiedi di viale Jenner a Milano.
Si badi che quella preghiera del venerdì è una situazione ritenuta «illegale» (cito testualmente da Repubblica di ieri) anche dal presidente della Provincia di Milano Filippo Penati, che «fascista» non lo è neanche alla lontana, essendo un ex comunista duro e puro oggi militante del Pd. Eppure proprio così ha detto monsignor Bottoni: «fascista», e l’ha detto in nome della libertà di culto.
Tenga conto il lettore, a proposito di libertà di culto, che non è passato molto tempo da quando la diocesi di Milano ha rispedito al mittente il motu proprio con il quale papa Benedetto XVI ha autorizzato la celebrazione della messa pre conciliare in latino. Ci sono cattolici, nella diocesi milanese, che vorrebbero partecipare alla messa con quel rito – in una chiesa, non sui marciapiedi – ma non possono perché la stessa Curia di monsignor Bottoni glielo impedisce. Decisione «fascista»? Di certo una decisione che ha creato parecchia irritazione in Vaticano.
C’è qualcosa di paradossale nella querelle in corso tra la Curia milanese e la Lega. In fondo, questi due contendenti così distanti sono anche così vicini nella rivendicazione di una propria autonomia locale. È da più di mezzo secolo che – a torto o a ragione – la diocesi di Milano viene considerata un modello di federalismo religioso.
Ripeto: a torto o a ragione.
Saranno stati anche i giornali a dipingere il cardinal Martini come un anti-papa, almeno nei primi dieci anni di Giovanni Paolo II.
L’ha fatto Repubblica, in particolare.
Interpretazione abusiva?
Lo speriamo.
Però i giornali si possono anche smentire con atteggiamenti chiari, si possono smentire non alimentando equivoci. E invece. Del cardinal Martini si ricordano, negli ultimi tempi, tre interventi: 1) ha pubblicamente preso le distanze da Benedetto XVI proprio sulla messa in latino; 2) ha contestato al cardinal Ruini i mancati funerali a Welby; 3) ha pubblicato sull’Espresso (stesso editore di Repubblica) un lungo dialogo con il medico e senatore del Pd Ignazio Marino esponendo sulla bioetica tesi ben diverse da quelle del magistero.
E così è stato per anni e anni.
C’è chi ricorda ancora il 13 aprile 1997, una domenica. Al Palavobis di Milano era in programma una grande convention a favore della scuola cattolica. Era organizzata da tutte le associazioni e si chiamava «Difendiamo il futuro».
Da Roma partirono due telegrammi di sostegno: uno da parte di Giovanni Paolo II, uno del cardinal Ruini: dovevano essere letti in apertura dei lavori. I telegrammi arrivarono in Curia al sabato, ma furono recapitati agli organizzatori solo il lunedì: non c’era nessuno in portineria al Palavobis, fu la giustificazione.
Con l’arrivo del cardinal Tettamanzi molti pensavano a un nuovo corso. Ma nel mondo cattolico si continua ad avere l’impressione di un doppio binario tra Roma e Milano.
Come tre anni fa, in piena campagna sul referendum per la procreazione assistita. Furono in molti, nel volontariato cattolico che aveva raccolto l’invito del cardinal Ruini (ma anche del Papa) a battersi per l’astensione, a restarci malissimo per l’intervista che il cardinal Tettamanzi rilasciò al Corriere della Sera: una frase, riportata nel titolo («Evitiamo scomuniche tra i cattolici»), fu presa come un minimizzare. E così via fino alle uscite più recenti, come quella contro il Comune di Milano per la questione delle iscrizioni all’asilo dei figli dei clandestini.
È inutile che andiamo avanti con gli esempi.
Il fatto è che molti cattolici – per la terza volta: a torto o a ragione – hanno spesso l’impressione di una Curia milanese che su tanti temi parla un linguaggio diverso da Roma; una Curia che cerca il facile applauso di quel milieu progressista ben rappresentato dal gruppo Repubblica-Espresso, un modo di pensare che non sarà maggioritario nel Paese ma lo è, eccome, in quello della cultura perbene; una Curia che sembra avere una sorta di inferiority complex nei confronti «del mondo»: basta fare un giro nelle parrocchie per vedere quante meditazioni sul Natale o sulla Pasqua sono affidate ai Giorello e agli Erri De Luca, ai Galimberti e ai Severino.
Chi scrive, tutto questo lo scrive con immenso dispiacere, e facendo salva la buona fede di tutti.
Forse, quando si vede che le chiese si svuotano e che il mondo va da un’altra parte, si ha la tentazione di inseguirlo nell’illusione di fermarlo almeno un po’.
Ma forse è proprio in quel momento che bisognerebbe ricordarsi dell’ammonimento di Gesù: «Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi», soprattutto se quei «tutti» sono da anni i portatori della più anticristiana delle culture.
Michele Brambilla
Il Giornale, 08 luglio 2008