Scutari, la scomoda memoria delle persecuzioni
Le monache clarisse custodiscono in Albania un convento ex carcere per cattolici
A Scutari, seconda città dell’Albania, si incontrano due fiumi che si mescolano dolcemente in un lago maestoso che costeggia il mare e che tinge d’azzurro i monti aspri e brulli dei dintorni. Gli albanesi chiamano la città Shkodra, e la considerano un gioiello di rara bellezza, memoria storica, simbolo del Paese e zona di attrazione turistica. Come tutta l’Albania, essa è un non luogo a cavallo tra un passato ancora presente, fatto di povertà e di tradizioni per noi incomprensibili, e un futuro che viene invocato a gran voce, fatto di modernità senza filtri perché qui non si cerca di capire la democrazia occidentale, le sue strutture burocratiche, il suo grado di sviluppo, ma si vuole solo applicarle, o addirittura copiarle.
I pochi turisti che visitano la città credono che il muschio umido nato sulle rovine dell’antico castello arroccato sulla collina e che si specchia nelle acque del lago, sia bagnato dal latte di Rozafa, una giovane mamma che venne murata viva nel castello, chiedendo prima ai suoi carnefici di aver libera una mano per cullare il suo bambino e un seno per allattarlo.
La leggenda è viva nella memoria delle donne che si recano a toccare il muschio per chiedere la protezione di Rozafa sulla loro gravidanza.
Pochi sanno, però, che anche nel cuore della città si nascondono tante storie; storie vere, testimoniate da simboli incisi sui muri bianchi delle minuscole celle di un convento vicino alla piazza centrale, in cui dall’ottobre 2005 vivono otto monache clarisse.
Inizialmente il monastero era un convento di frati minori, poi ceduto alle clarisse perché, oltre che luogo di preghiera, ne facessero un memoriale delle persecuzioni contro la Chiesa cattolica durante il regime di Enver Hoxha. Nel 1946 il convento fu infatti trasformato in carcere. Nelle stanze superiori si programmavano i piani della persecuzionee si tenevano gli interrogatori: in quattro di esseera fissato a terra uno sgabello al quale il prigioniero veniva legato e torturato, anche con l’uso di scosse elettriche.
Da quell’anno in poi bastava poco per essere imprigionati: unirsi a un piccolo gruppo per strada, aver fatto parte di una associazione di ispirazione cattolica, compiere un gesto cristiano in pubblico equivaleva a un attentato allo Stato e si finiva in carcere. "Il regime – dice la monaca che accompagna i visitatori per i corridoi del monastero – ha annientato in cinquant’anni la dignità delle persone. Nel ’67 venne proclamato l’ateismo di Stato: furono chiuse tutte le chiese insieme alle moschee. La cattedrale di Scutari fu trasformata in palazzetto dello sport e proprio a Scutari, durante un congresso, il dittatore parlò contro Dio e contro la Chiesa cattolica. Ogni uomo fu ridotto a una larva, preoccupato solo di procurarsi il cibo per sopravvivere. Nient’altro. Eppure, proprio nelle famiglie ridotte in queste condizioni di miseria, nel nord del Paese più penalizzato perché più cattolico, sono stati custoditi i valori della fede, dell’amore, dell’ospitalità".
Infatti, mentre a Tirana don Lazër Shantoja veniva torturato con l’amputazione delle mani e dei piedi, tanto che la madre, vedendolo ridotto così, gridò che era disposta a "comprare il proiettile per ucciderlo, pur di non vederlo in quelle condizioni", a Scutari veniva fucilato don Ndre Zadeja insieme ad altri sacerdoti, religiosi e diocesani.
Alcuni di questi furono detenuti in questo ex convento (divenuto anche sede della Sicurimi, la polizia segreta del regime), come testimoniano le foto appese lungo il corridoio di ingresso: foto di perseguitati che vi sono morti, martiri per i quali la Chiesa ha avviato il processo di canonizzazione. Il clero, la classe intellettuale, artisti e studiosi che esprimevano un pensiero libero, furono i primi ad essere eliminati.
I pochi turisti che visitano la città credono che il muschio umido nato sulle rovine dell’antico castello arroccato sulla collina e che si specchia nelle acque del lago, sia bagnato dal latte di Rozafa, una giovane mamma che venne murata viva nel castello, chiedendo prima ai suoi carnefici di aver libera una mano per cullare il suo bambino e un seno per allattarlo.
La leggenda è viva nella memoria delle donne che si recano a toccare il muschio per chiedere la protezione di Rozafa sulla loro gravidanza.
Pochi sanno, però, che anche nel cuore della città si nascondono tante storie; storie vere, testimoniate da simboli incisi sui muri bianchi delle minuscole celle di un convento vicino alla piazza centrale, in cui dall’ottobre 2005 vivono otto monache clarisse.
Inizialmente il monastero era un convento di frati minori, poi ceduto alle clarisse perché, oltre che luogo di preghiera, ne facessero un memoriale delle persecuzioni contro la Chiesa cattolica durante il regime di Enver Hoxha. Nel 1946 il convento fu infatti trasformato in carcere. Nelle stanze superiori si programmavano i piani della persecuzionee si tenevano gli interrogatori: in quattro di esseera fissato a terra uno sgabello al quale il prigioniero veniva legato e torturato, anche con l’uso di scosse elettriche.
Da quell’anno in poi bastava poco per essere imprigionati: unirsi a un piccolo gruppo per strada, aver fatto parte di una associazione di ispirazione cattolica, compiere un gesto cristiano in pubblico equivaleva a un attentato allo Stato e si finiva in carcere. "Il regime – dice la monaca che accompagna i visitatori per i corridoi del monastero – ha annientato in cinquant’anni la dignità delle persone. Nel ’67 venne proclamato l’ateismo di Stato: furono chiuse tutte le chiese insieme alle moschee. La cattedrale di Scutari fu trasformata in palazzetto dello sport e proprio a Scutari, durante un congresso, il dittatore parlò contro Dio e contro la Chiesa cattolica. Ogni uomo fu ridotto a una larva, preoccupato solo di procurarsi il cibo per sopravvivere. Nient’altro. Eppure, proprio nelle famiglie ridotte in queste condizioni di miseria, nel nord del Paese più penalizzato perché più cattolico, sono stati custoditi i valori della fede, dell’amore, dell’ospitalità".
Infatti, mentre a Tirana don Lazër Shantoja veniva torturato con l’amputazione delle mani e dei piedi, tanto che la madre, vedendolo ridotto così, gridò che era disposta a "comprare il proiettile per ucciderlo, pur di non vederlo in quelle condizioni", a Scutari veniva fucilato don Ndre Zadeja insieme ad altri sacerdoti, religiosi e diocesani.
Alcuni di questi furono detenuti in questo ex convento (divenuto anche sede della Sicurimi, la polizia segreta del regime), come testimoniano le foto appese lungo il corridoio di ingresso: foto di perseguitati che vi sono morti, martiri per i quali la Chiesa ha avviato il processo di canonizzazione. Il clero, la classe intellettuale, artisti e studiosi che esprimevano un pensiero libero, furono i primi ad essere eliminati.
Questa terribile situazione continuò fino al 4 novembre 1990, giorno in cui la Chiesa uscì dalle catacombe con una Messa al cimitero cattolico di Scutari. Quel giorno aprì la strada a eventi felici: la visita di madre Teresa di Calcutta; l’apertura della nunziatura apostolica a Tirana; la visita di Giovanni Paolo II; la costituzione della gerarchia ecclesiastica; l’apertura del seminario interdiocesano "Madonna del Buon Consiglio"; l’arrivo di molti missionari dalle chiese sorelle.
I visitatori del monastero possono vedere strumenti di tortura, come le manette appese a una grande croce in legno, "le stesse che usavano le SS naziste, strette ai polsi fino a far scoppiare le vene – precisa la suora – e i ganci a cui venivano appese le trombe degli amplificatori, sempre ad alto volume per coprire le grida dei torturati. Lo raccontano i testimoni ancora in vita e che tornano a rivedere i luoghi della loro prigionia".
Con un racconto accuratamente documentato, la suora rivela la partecipazione commossa delle consorelle alle sofferenze consumate tra queste mura e l’urgenza di farle conoscere, nella consapevolezza che mantenere intatto il sottile equilibrio tra oblio e memoria del passato in luoghi come questo significa contribuire a formare una coscienza collettiva capace di non ripetere domani gli stessi errori. Con questa speranza in cuore, in Quaresima le monache organizzano nel monastero una dolente Via Crucis: ad ogni stazione la Parola di Dio si alterna alle parole di chi ha sofferto qui per salvaguardare la fede e testimoniare la verità.
Il luogo avrebbe bisogno di interventi di manutenzione, ma non è facile trovare qualcuno che si interessi della cosa, soprattutto nel nord del Paese.
Scutari sembra non conservare altra traccia di un passato ancora vivo: sono pochi, infatti, i sopravvissuti alle torture e i costretti dal regime a condannare e torturare i propri fratelli, a tornare in questo luogo e lasciare la propria testimonianza: "Se non volevo morire e non volevo che venisse fatto del male alla mia famiglia, dovevo dire di sì".
"Ma quei pochi – conferma la suora – si incontrano volentieri in chiesa, come per un inconscio tentativo di riconciliazione. C’è anche chi si rifiuta di ricordare. Siamo noi a raccontare e a far conoscere: tra i giovanissimi, investiti da un vento di globalizzazione che ha cancellato il passato, e i cinquantenni che non amano ricordare e sperano per i figli il massimo, identificato nella corsa a un benessere che si cerca fuori del Paese, manca l’anello dei quarantenni". Anche se è cessato l’esodo massiccio degli anni Novanta, l’emigrazione è ancora un fenomeno costante. Le iniziative per offrire alternative non vengono dallo Stato, ma solo dalle organizzazioni non governative e da quelle religiose. I problemi, le carenze, la precarietà, non mancano ad ogni livello sociale. La scuola conserva modelli obsoleti, legati a insegnanti anziani, che non fanno posto a successive generazioni. Le cure sanitarie non sembrano ancora un diritto per tutti.
Continua la suora: "Da questo luogo dove, fino a pochi anni fa, uomini e donne erano crudelmente torturati; da quest’angolo remoto della terra che l’uomo evoluto rifugge e che la storia disdegna, da qui oggi sale a Dio la nostra lode. Semplicemente vogliamo esserci, come frammento di speranza in mezzo a un popolo che, con fatica e sofferenza, sta ricostruendo la propria difficile storia. E la speranza rifiorisce in tanti piccoli segni, nella tenacia e nella buona volontà di molti. Siamo qui per "sprecare" il tempo solo per Dio, senza possedere nulla, nella stabilità, nell’esperienza di una fraternità riconciliata, in ascolto di coloro che sono in cerca di pace. La risposta positiva alla nostra presenza non ha tardato ad arrivare: da più parti ci siamo sentite dire quanto sia indispensabile il nostro esserci, quanto l’Albania abbia bisogno di preghiera. La Chiesa che è in Albania ci accoglie maternamente nella sua realtà giovane e viva, sebbene a lungo soffocata e duramente provata. Anche la gente comune dimostra di intuire l’essenza della nostra forma di vita".
Alla porta del monastero bussano ogni giorno molte persone di cui ascoltiamo attentamente le attese: "Abbiamo preso visione – continua – dei vari bisogni materiali, ma abbiamo colto soprattutto l’urgenza di sostegno a un livello più profondo: ogni persona sente il bisogno di essere riconosciuta e rispettata nella sua altissima dignità. L’anima dell’Albania sembra sfinita dalla debolezza di antiche oppressioni, ma in realtà è riarsa dalla sete di ritrovare la sua integrità. Noi siamo qui per raccogliere le aspirazioni profonde di questa gente e della Chiesa più impegnata che si rivolge a noi contemplative, perché attraverso la preghiera chiediamo l’unica cosa necessaria: Dio e il suo Spirito. Sul volto dei poveri che vengono a trovarci e sui tratti sconfitti del loro sorriso impotente, avvertiamo la tristezza per l’opera che viene insidiata e vanificata dall’ingiustizia. Sentiamo che la nostra presenza è chiamata a essere "lievito", capace di condividere i valori che la madre santa Chiara mediò dal Vangelo, l’unità di spiriti e l’altissima povertà, come frutti di un cuore unito a Gesù Cristo vivo, per rispondere soprattutto a tanti giovani che ci interpellano sul senso della vita.
La piccola fraternità interetnica (sorelle italiane e albanesi insieme) suscita molti interrogativi, perché si presenta come possibilità di unità e di riconciliazione in seno a una terra dalle molteplici espressioni. Non siamo dei pezzi qualsiasi di popoli, messi sommariamente insieme dal caso: siamo una famiglia che desidera ricomporre le diversità, mettendo al cuore della vita il Vangelo.
Siamo una famiglia che desidera farsi luogo dell’esperienza di Dio, come conseguenza di uno stile di vita povero e fraterno in comunità. Fin dai primi giorni dell’entrata nel nuovo monastero, abbiamo percepito "la grazia del luogo": viviamo e camminiamo sopra un terreno bagnato dal sangue di martiri. Comprendiamo che per vie misteriose la divina Provvidenza ci ha condotte qui per riempire di nuovi significati un vero e proprio santuario del dolore umano e per essere custodi oranti della memoria, affinché tutto sia "ricapitolato in Cristo"".
I visitatori del monastero possono vedere strumenti di tortura, come le manette appese a una grande croce in legno, "le stesse che usavano le SS naziste, strette ai polsi fino a far scoppiare le vene – precisa la suora – e i ganci a cui venivano appese le trombe degli amplificatori, sempre ad alto volume per coprire le grida dei torturati. Lo raccontano i testimoni ancora in vita e che tornano a rivedere i luoghi della loro prigionia".
Con un racconto accuratamente documentato, la suora rivela la partecipazione commossa delle consorelle alle sofferenze consumate tra queste mura e l’urgenza di farle conoscere, nella consapevolezza che mantenere intatto il sottile equilibrio tra oblio e memoria del passato in luoghi come questo significa contribuire a formare una coscienza collettiva capace di non ripetere domani gli stessi errori. Con questa speranza in cuore, in Quaresima le monache organizzano nel monastero una dolente Via Crucis: ad ogni stazione la Parola di Dio si alterna alle parole di chi ha sofferto qui per salvaguardare la fede e testimoniare la verità.
Il luogo avrebbe bisogno di interventi di manutenzione, ma non è facile trovare qualcuno che si interessi della cosa, soprattutto nel nord del Paese.
Scutari sembra non conservare altra traccia di un passato ancora vivo: sono pochi, infatti, i sopravvissuti alle torture e i costretti dal regime a condannare e torturare i propri fratelli, a tornare in questo luogo e lasciare la propria testimonianza: "Se non volevo morire e non volevo che venisse fatto del male alla mia famiglia, dovevo dire di sì".
"Ma quei pochi – conferma la suora – si incontrano volentieri in chiesa, come per un inconscio tentativo di riconciliazione. C’è anche chi si rifiuta di ricordare. Siamo noi a raccontare e a far conoscere: tra i giovanissimi, investiti da un vento di globalizzazione che ha cancellato il passato, e i cinquantenni che non amano ricordare e sperano per i figli il massimo, identificato nella corsa a un benessere che si cerca fuori del Paese, manca l’anello dei quarantenni". Anche se è cessato l’esodo massiccio degli anni Novanta, l’emigrazione è ancora un fenomeno costante. Le iniziative per offrire alternative non vengono dallo Stato, ma solo dalle organizzazioni non governative e da quelle religiose. I problemi, le carenze, la precarietà, non mancano ad ogni livello sociale. La scuola conserva modelli obsoleti, legati a insegnanti anziani, che non fanno posto a successive generazioni. Le cure sanitarie non sembrano ancora un diritto per tutti.
Continua la suora: "Da questo luogo dove, fino a pochi anni fa, uomini e donne erano crudelmente torturati; da quest’angolo remoto della terra che l’uomo evoluto rifugge e che la storia disdegna, da qui oggi sale a Dio la nostra lode. Semplicemente vogliamo esserci, come frammento di speranza in mezzo a un popolo che, con fatica e sofferenza, sta ricostruendo la propria difficile storia. E la speranza rifiorisce in tanti piccoli segni, nella tenacia e nella buona volontà di molti. Siamo qui per "sprecare" il tempo solo per Dio, senza possedere nulla, nella stabilità, nell’esperienza di una fraternità riconciliata, in ascolto di coloro che sono in cerca di pace. La risposta positiva alla nostra presenza non ha tardato ad arrivare: da più parti ci siamo sentite dire quanto sia indispensabile il nostro esserci, quanto l’Albania abbia bisogno di preghiera. La Chiesa che è in Albania ci accoglie maternamente nella sua realtà giovane e viva, sebbene a lungo soffocata e duramente provata. Anche la gente comune dimostra di intuire l’essenza della nostra forma di vita".
Alla porta del monastero bussano ogni giorno molte persone di cui ascoltiamo attentamente le attese: "Abbiamo preso visione – continua – dei vari bisogni materiali, ma abbiamo colto soprattutto l’urgenza di sostegno a un livello più profondo: ogni persona sente il bisogno di essere riconosciuta e rispettata nella sua altissima dignità. L’anima dell’Albania sembra sfinita dalla debolezza di antiche oppressioni, ma in realtà è riarsa dalla sete di ritrovare la sua integrità. Noi siamo qui per raccogliere le aspirazioni profonde di questa gente e della Chiesa più impegnata che si rivolge a noi contemplative, perché attraverso la preghiera chiediamo l’unica cosa necessaria: Dio e il suo Spirito. Sul volto dei poveri che vengono a trovarci e sui tratti sconfitti del loro sorriso impotente, avvertiamo la tristezza per l’opera che viene insidiata e vanificata dall’ingiustizia. Sentiamo che la nostra presenza è chiamata a essere "lievito", capace di condividere i valori che la madre santa Chiara mediò dal Vangelo, l’unità di spiriti e l’altissima povertà, come frutti di un cuore unito a Gesù Cristo vivo, per rispondere soprattutto a tanti giovani che ci interpellano sul senso della vita.
La piccola fraternità interetnica (sorelle italiane e albanesi insieme) suscita molti interrogativi, perché si presenta come possibilità di unità e di riconciliazione in seno a una terra dalle molteplici espressioni. Non siamo dei pezzi qualsiasi di popoli, messi sommariamente insieme dal caso: siamo una famiglia che desidera ricomporre le diversità, mettendo al cuore della vita il Vangelo.
Siamo una famiglia che desidera farsi luogo dell’esperienza di Dio, come conseguenza di uno stile di vita povero e fraterno in comunità. Fin dai primi giorni dell’entrata nel nuovo monastero, abbiamo percepito "la grazia del luogo": viviamo e camminiamo sopra un terreno bagnato dal sangue di martiri. Comprendiamo che per vie misteriose la divina Provvidenza ci ha condotte qui per riempire di nuovi significati un vero e proprio santuario del dolore umano e per essere custodi oranti della memoria, affinché tutto sia "ricapitolato in Cristo"".
L’Osservatore Romano – 9 aprile 2008