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Il secondo capitolo (“Epistemologia della vocazione”, pp. 43-90), sciogliendo i nodi della crisi della vocazione, offre illuminanti riflessioni sulla natura moralmente corrosiva del processo di secolarizzazione della modernità che, lungi dal liberare l’uomo da un supposto oscurantismo confessionale di derivazione medioevale, lo imprigiona in gabbia di disperazione ben peggiori: infatti, riprendendo un pensiero dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, “la negazione di Dio dell’illuminismo moderno è a carattere religioso, esso è una fede e una religione esattamente come quella che afferma di voler combattere” (pag. 58). Drammatica è in questo senso, nella società globalizzata, l’equiparazione di taglio ideologicamente multiculturalista di tutte le identità che, anziché rafforzare la fragile convivenza civile finisce invece per degenerarla irrimediabilmente minando la complessa tenuta del bene comune (“solo una identità indifferente, ossia suicida, è oggi considerata degna”, pag. 71). Le identità con dei contenuti forti infatti vengono sempre più ridimensionate, oppure vissute in privato e non in pubblico, “inteso oggi come il luogo della coesistenza indifferente delle identità” (pag. 74). Si diffonde così, non di rado presso gli stessi vertici istituzionali o politici che dovrebbero essere portatori di valori, l’idea astrusa che la sfera pubblica debba essere in toto una sorta di terra di nessuno, una sfera ‘concettualmente’ vuota: “a questo vuoto si dà il nome di laicità o di democrazia” (pag. 75).
Il terzo capitolo (“Antropologia della vocazione”, pp. 91-104) riflette sulla dimensione ‘parlante’ della natura umana, essa stessa una via d’uscita dalla crisi se solo la si volesse ascoltare, giacché “nella natura umana è contenuto un disegno. La nostra natura umana è un discorso che ci è rivolto, un appello che liberamente possiamo accogliere o rifiutare” (pag. 94). La vocazione dell’uomo si rivela dunque per l’Autore, stricto sensu, come un appello che viene dall’eternità e rimanda al compimento di un ufficio ‘letteralmente’ eterno che segna lo scorrere del tempo, preesistendo alla nascita, allo sviluppo e alla morte delle singole civiltà: tratti universali ed esperienze di senso comune come mascolinità e femminilità o paternità e maternità sono parte integrante di questo disegno costitutivo sulla natura umana. Ma, se questo è vero, ne consegue che, per dire il minimo, istituti naturali quali famiglia e matrimonio sono come inscritti, ab origine, nel DNA di ogni uomo di ogni tempo e di ogni luogo. A prescindere dalle singole ideologie al potere e dalle strutture sociali o economiche di riferimento. Certamente nelle stagioni più confuse della storia, il loro significato potrà essere oscurato, dibattuto e perfino messo in discussione, ma esso non potrà venire mai meno perché la natura, contrariamente a quanto poteva pensare il filosofo Jean-Jacques Rousseau, precede sempre la cultura e i suoi costrutti artificiali. Se così non fosse, non si darebbe un senso morale (universale) nella realtà che ci circonda, né una lettura razionale degli accadimenti del mondo. Ma il solo fatto – tra i tanti – che la dimensione religiosa sia una caratteristica costante dell’umanità fin dall’epoca primitiva (prima ancora della venuta di Cristo), che l’esistenza di una legge naturale oggettiva sia verificabile quotidianamente da chiunque sia disposto a riconoscerla o che l’uomo sia in quanto tale ‘homo religiosus’, bisognoso di trovare ‘risposte di verità’ all’apparente dittatura insensata del divenire storico che tutto dissolve si oppone recisamente al riemergere di simili utopie materialiste, vecchie e nuove.
Nel successivo quarto capitolo (“Il peccato originale come problema politico, pp. 105-128), l’Autore indaga i limiti intrinseci della società relativista, inebriata dalla dittatura del desiderio e sempre sul punto di tagliare lo stesso ramo sui cui poggia la sua libertà. La modernità, in tutte le sue forme, si è infatti caratterizzata per un dato comune: la negazione del peccato originale. Tale negazione, per le sue evidenti ricadute sociali, non ha valore solo per la dimensione religiosa di una comunità ma finisce per impedire ogni forma di vocazione. L’ultimo capitolo (“Politica della vocazione”, pp. 129-150) e le conclusioni lo evidenziano incisivamente: oggi più che mai la politica è, al proprio fondo, “una questione teologica” (pag. 151). Il problema principale per gli uomini del XXI secolo è che posto dare a Dio nel mondo: dalla risposta a questa domanda dipenderà buona parte dello sviluppo, della pace e perfino della libertà dell’umanità ventura.
Omar Ebrahime