Schiava

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Mende Nazer, Schiava, Sperling & Kupfer Editori, Milano, 2003, pag. 288, euro 16,00

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La schiavitù è stata ufficialmente debellata dal mondo civile ormai da molti anni. Tra gli ultimi paesi ad averne decretato la fine va segnalata l’Arabia Saudita, la Mauritania e il Sudan. Ad essa, tuttavia, si sono sostituite nuove forme di schiavitù – non meno odiose e spesso più sofisticate – che hanno per oggetto, come sempre, i più deboli e gli indifesi. Dal mercato del sesso a quello della droga; dal lavoro infantile al reclutamento dei bambini-soldato; dal commercio d’organi al businnes dell’immigrazione. Tutto converge a riproporre quello che da sempre si è rivelato un male endemico: la prevaricazione dell’uomo sull’uomo; l’imposizione della legge del più forte; il disprezzo dei diritti e della dignità della persona umana. Una piaga che solo il cristianesimo, con tutti i limiti che derivano dalla condizione umana post-peccato, ha saputo contrastare e limitare con una certa efficacia. Ciò premesso, è convinzione comune che almeno un certo tipo di schiavitù – quella che si praticava fino all’800 con sistematiche razzie nel cuore dell’Africa e che alimentava i mercati costieri oltre alla tratta atlantica – si sia definitivamente conclusa. Quel tipo di schiavitù, per intenderci, che ha ispirato romanzi come Radici o La capanna dello zio Tom, piuttosto che storie drammaticamente vere come quella di Santa Giuseppina Bakhita. Storie che appartengono al passato, talmente stridenti col nostro modo di vivere da farcele archiviare in un contesto dove realtà e fantasia tendono a confondersi.  Orbene, il libro di Mende Nazer costituisce una testimonianza sconvolgente che ci costringe a rivedere radicalmente il quadro appena descritto. Nel suo paese: il Sudan, nulla è cambiato da quando Daniele Comboni lottava per contrastare il commercio del cosiddetto “avorio nero” e scriveva i suoi drammatici resoconti sulle nefandezze dei mercanti di schiavi. Il libro è autobiografico. Mende è una ragazzina di dodici anni quando viene rapita dal suo villaggio sui Monti Nuba, durante un’incursione notturna dei mujaheddin, milizia araba dedita al commercio umano.

La tecnica è sempre la solita: l’attacco notturno per sfruttare l’effetto sorpresa; l’uccisione di tutti coloro che fanno resistenza; la cattura degli elementi più giovani, soprattutto bambini e ragazze. Secondo un copione ormai consolidato, che da sempre distingue la tratta praticata dagli arabi da quella messa in atto a suo tempo dagli europei. Questi ultimi, infatti, deportavano soprattutto uomini destinati al lavoro nelle piantagioni del continente nord-americano. Gli arabi, al contrario, rifornivano di schiavi domestici le case dell’intera costa settentrionale ed orientale dell’Africa, oltre a quelle del Medio Oriente, della penisola arabica, fino ad arrivare alla Persia. Nel caso delle ragazze più giovani, specialmente se belle, queste potevano essere destinate anche agli harem dei personaggi più facoltosi, con maggiori possibilità di guadagno per il fortunato predone. Per secoli Zanzibar, grazie alla sua collocazione ideale, è stato il crocevia di questo commercio; punto nevralgico per lo stoccaggio e la vendita della merce umana, oltre che base di partenza per le spedizioni nell’entroterra.

Ma torniamo alla nostra vicenda. Una volta catturata, Mende viene portata – insieme ad alcuni sfortunati compagni – a Karthoum, dove viene venduta come schiava ad una facoltosa famiglia della capitale. Il dato singolare di questa storia è che tutto ciò avviene nel 1991, nella capitale di un paese che ha condannato ufficialmente la schiavitù e che a seguito di ciò è stato ammesso nei più rappresentativi consessi internazionali. Ma il dato più inquietante deve ancora venire. Infatti la storia di Mende, che per anni si dipana tra soprusi e violenze di ogni tipo, conosce una svolta nel 1998 quando Rahab, la padrona, “cede” la sua giovane schiava alla sorella, moglie di un diplomatico sudanese accreditato presso l’ambasciata di Londra. A Londra, come si sa, non è possibile acquistare schiavi, né tantomeno è possibile prendere a servizio personale che lavori 24 ore su 24 per 365 giorni all’anno senza uno scellino di paga. L’accordo è presto fatto e Mende, debitamente scortata, prende l’aereo per Londra dove riprende in una nuova casa il lavoro di sempre.

E’ qui che comincia a comprendere, molto lentamente, che la sua condizione non è normale e che il mondo gira con regole diverse da quelle che ha sempre conosciuto. Nonostante la segregazione pressoché totale, i pochi contatti che ha col mondo esterno sono sufficienti a farle intravedere una prospettiva fino a quel momento considerata irraggiungibile: quella di una vita libera.

Comincia così, tra pericoli e paure, l’ultima fase della sua schiavitù, che finalmente la porterà l’11 settembre del 2000 a fuggire ed a riacquistare la libertà, con un’ultima sconcertante appendice. La battaglia per ottenere dalle autorità britanniche il diritto di asilo, che Londra nega finchè la cosa è possibile, per sottrarsi dall’inevitabile imbarazzo col governo sudanese, il cui rappresentante ufficiale deteneva una schiava nel cuore della nazione abolizionista per eccellenza. Un imbarazzo che innesca un vero e proprio ostruzionismo da parte delle autorità britanniche, fatto di cavilli e di defaticanti procedure burocratiche. Ostacoli insormontabili per una ragazza straniera, priva di istruzione e senza i benché minimi elementi per sapere come muoversi in una situazione del genere. Ostacoli che Mende ha potuto superare grazie all’aiuto di alcune persone; le stesse che l’aiuteranno a far conoscere la sua storia con la pubblicazione di questo libro, preziosa cassa di risonanza di una situazione scandalosa.

Un’ultima annotazione, che da sola meriterebbe una riflessione adeguata. Mende è musulmana dalla nascita. Ciò non l’ha preservata dalla cattura e dalla riduzione in schiavitù in un paese dove vige la legge islamica, testimoniando con ciò il fatto che la fratellanza nell’Islam – se mai c’è – non riguarda certamente i neri, ai quali viene riservato l’appellativo di yebit (in arabo: “persona indegna di un nome").

Enrico Chiesura