Solo la penitenza evita il castigo
Il centenario delle apparizioni di Fatima ci offre l’opportunità di approfondire il significato di un messaggio, che illumina la crisi del nostro tempo.
Suor Lucia racconta che, al termine delle rivelazioni della Madonna, il 13 luglio 1917, i tre pastorelli videro «al lato sinistro di Nostra Signora un poco più in alto un Angelo con una spada di fuoco nella mano sinistra; scintillando emetteva grandi fiamme che sembrava dovessero incendiare il mondo intero; ma si spegnevano al contatto dello splendore che Nostra Signora emanava dalla sua mano destra verso di lui; l’Angelo, indicando la terra con la mano destra, con voce forte disse: “Penitenza, Penitenza, Penitenza!”».
Nel Commento teologico al Terzo Segreto di Fatima, pubblicato dalla Santa Sede nel 2000, l’allora Prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede, Josef Ratzinger, commenta: «Come parola chiave della prima e della seconda parte del segreto abbiamo scoperto quella di “alvare le anime”, così la parola chiave di questo segreto è il triplice grido: “Penitenza, Penitenza, Penitenza!”. Ci ritorna alla mente l’inizio del Vangelo: “Paenitemini et credite evangelio”(Mc 1, 15). Comprendere i segni del tempo significa: comprendere l’urgenza della penitenza – della conversione – della fede. Questa è la risposta giusta al momento storico, che è caratterizzato da grandi pericoli, i quali verranno delineati nelle immagini successive. L’angelo con la spada di fuoco a sinistra della Madre di Dio ricorda analoghe immagini dell’Apocalisse. Esso rappresenta la minaccia del giudizio, che incombe sul mondo. La prospettiva che il mondo potrebbe essere incenerito in un mare di fiamme, oggi non appare assolutamente più come pura fantasia: l’uomo stesso ha preparato con le sue invenzioni la spada di fuoco».
La parola chiave “penitenza” può riferirsi sia alla virtù cristiana che al Sacramento. La penitenza è quella virtù morale per cui il peccatore pentito si propone di non più offendere Dio per l’avvenire. Essendo il peccato un’ingiustizia, il peccatore deve avere anche la volontà di riparare l’offesa fatta a Dio con opere di penitenza, cominciando dalla Confessione sacramentale. La Confessione riconcilia il peccatore con il Signore e apre le porte della grazia, chiuse dal peccato. Il Sacramento della Confessione è forse quello più odiato dal demonio e dagli eretici di ogni tempo, non solo perché ricorda la verità del peccato di cui padre è il diavolo, «peccatore fin dal principio» (1 Gv 3,8), ma perché dà al peccatore la possibilità di sfuggire alla condanna eterna e di guadagnare il Paradiso.
Sia il Sacramento che la virtù della penitenza implicano un serio e sincero odio per il peccato. La ragione e la fede mostrano che il peccato è il più grande di tutti i mali, l’unico vero male, perché offende Dio e ci priva dei beni più preziosi, che sono quelli soprannaturali. La penitenza ci rende consapevoli della gravità dei peccati commessi e ce li fa detestare con tutto il cuore. «La detestazione – spiega mons. Antonio Piolanti – è l’odio e l’avversione del peccato commesso ossia quella disposizione dell’anima per cui il peccatore vorrebbe non aver commesso il peccato» (I Sacramenti, Libreria Editrice Vaticana, Roma 1990. p. 383). Far penitenza prima di tutto significa convertirsi e cioè pentirsi dei propri peccati e ripararli con le opere di penitenza. «Lo spirito di penitenza – afferma un altro teologo, Padre Paul Galtier – non è altro che l’atto interiore di penitenza passato allo stato di abitudine» (Il peccato e la penitenza, Edizioni Paoline, Roma 1952, p. 213).
Quando i peccati non sono quelli di un solo individuo, ma di un popolo, è il popolo intero che è chiamato alla penitenza, come accadde a Ninive. Dio inviò agli abitanti di Ninive il profeta Giona, che minacciò la distruzione della loro città, se non si fossero convertiti. «l cittadini di Ninive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, dal più grande al più piccolo. Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si impietosì riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece» (Giona, 3, 5-10). Gli abitanti di Ninive compresero la gravità dei loro peccati, li detestarono e fecero penitenza. La penitenza li salvò dal castigo.
“Castigo” è la seconda parola chiave del messaggio di Fatima. Prima del triplice appello dell’Angelo alla Penitenza, la Madonna rivela a suor Lucia che «Dio si appresta a punire il mondo per i suoi delitti, per mezzo della guerra, della fame e delle persecuzioni alla Chiesa e al Santo Padre». Riecheggiano le stesse parole che Gesù Cristo rivolgeva agli abitanti di Gerusalemme: «Se non farete penitenza, perirete tutti quanti» (Lc, 13, 3).
Non basta dunque un generico appello alla penitenza. Se non si vuole svuotare il messaggio di Fatima del suo significato, è anche necessario ricordare che un terribile castigo incombe sull’umanità peccatrice. La drammatica alternativa è quella tra la penitenza e il castigo divino.
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La nozione di castigo, spesso sostituita da quella di una malintesa misericordia, ripugna ai nostri contemporanei, immersi nel relativismo. Eppure la dottrina della Chiesa insegna un giudizio particolare che segue la morte di ciascuno, con l’immediata retribuzione delle anime, e un giudizio universale, in cui saranno giudicati gli angeli e gli uomini per pensieri, parole, opere, omissioni.
La teologia della storia ci dice inoltre che Dio premia e punisce non solo gli uomini, ma le collettività e i gruppi sociali: famiglie, nazioni, civiltà. Ma, mentre gli uomini hanno la loro ricompensa o il loro castigo sia in terra che in cielo, le nazioni, prive di vita eterna, vengono punite o premiate solo in terra. Pio XII insegna che il Signore, «come giusto giudice, se punisce spesso i peccati dei privati soltanto dopo la morte, tuttavia colpisce talora i governanti e le nazioni stesse anche in questa vita per le loro ingiustizie, come la storia ci insegna» (Enc. Datis Nuperrime del 5 novembre 1956).
Per molti teologi e vescovi contemporanei, l’idea di un Dio che castiga l’umanità peccatrice deve essere rimossa e sostituita da quella di un Dio misericordioso e infinitamente indulgente. L’inferno, in questa prospettiva, non esiste e, se esiste, è vuoto. E, se non si può parlare di castigo per le singole anime, ancor meno si può parlare di castigo per le nazioni. Per questo oggi non si accetta che un terremoto o un’altra sciagura naturale possa essere considerata un castigo.
Ma la misericordia di Dio è legata al pentimento e il castigo diviene inevitabile quando il mondo, rifiutando la penitenza, attira su di sé non la misericordia, ma la giustizia divina. Oggi la legge divina e naturale non è solo trasgredita da singoli individui, ma capovolta pubblicamente, in maniera sistematica e organizzata. Non è necessario uno studio storico, né un’analisi sociologica, per comprendere che l’umanità vive nel peccato, teorizza il peccato, sta in uno stato di peccato maggiore di quanto non sia mai stato nella storia.
Il messaggio di Fatima ci ammonisce sull’imminenza di un castigo e ci invita alla penitenza per evitarlo. Perché il mondo eviti questa punizione, deve mutare spirito, ma non potrà farlo se non comprenderà l’enormità dei peccati che vengono commessi, a cominciare dall’introduzione nelle leggi dell’omicidio di massa e delle unioni omosessuali. In entrambi i casi si tratta di peccati diretti contro Dio, Creatore della natura; peccati che, come insegna il Catechismo, gridano vendetta al cospetto di Dio ovvero attirano un supremo castigo. La penitenza è pentimento e senza pentimento non si allontana il castigo. è questa la drammatica verità che va compresa e meditata alla luce del messaggio di Fatima.
RC n.122 – marzo 2017 di Roberto de Mattei
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