(SviPop) Quando si confonde la tattica con la verità

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LEGGE 194, QUANDO LA TATTICA SI MANGIA LA VERITA’

Riccardo Cascioli
 

In queste settimane è scoppiata una strana guerra nel fronte anti-abortista, su cui vale la pena esprimere un giudizio chiaro viste le conseguenze concrete che essa comporta.

Tutto è cominciato con un’intervista alla nota ginecologa cattolica Patrizia Vergani del settimanale Tempi. A domanda precisa (“Lei oggi cambierebbe la 194, la legge sull’aborto?”), la Vergani risponde: “No. Penso invece che dovrebbe essere rispettata e applicata di più, con tutta quella parte di sostegno a chi decide di non abortire”. Si sono sollevate immediatamente delle polemiche, in cui si è distinto il Comitato Verità e Vita, il cui presidente Mario Palmaro ha bollato come “gravissima” questa presa di posizione paventando l’abortismo strisciante che si è ormai insinuato anche tra cattolici al disopra di ogni sospetto. In soccorso della Vergani, ancora su Tempi, è scesa in campo Assuntina Morresi, membro del Comitato Nazionale di Bioetica e autrice di pubblicazioni anti-abortiste. La sua difesa d’ufficio ha provocato una reazione ancora più dura da parte del Comitato Verità e Vita, che in pratica l’ha accusata di essere diventata abortista.

Se quest’ultima affermazione è indubbiamente infondata, dettata certamente dalla foga polemica, ciononostante molte affermazioni della Morresi lasciano perplessi se non costernati.
 
Anzitutto si fa scudo delle parole del cardinale Camillo Ruini per affermare che lei e la Vergani sono in perfetta sintonia con l’ex presidente della CEI. Ruini avrebbe infatti affermato che “noi siamo certamente contro l’aborto ma non vogliamo modificare la legge”. Peccato che il 4 settembre scorso il cardinal Ruini abbia detto esattamente il contrario: “Modificare la 194 non solo è lecito ma è anche doveroso”, ha affermato intervenendo alla Summer School della Fondazione Magna Carta. All’inizio del discorso aveva detto che “per un credente sarebbe meglio che quella legge non ci fosse, però c’è…”.  Come dire, è una legge inaccettabile ma bisogna prenderne atto, e infatti più avanti, dice: “Non ci sono le condizioni culturali per abrogarla”. Quello di Ruini, dunque non è un “non voglio”, piuttosto è un “vorrei, ma non posso”. Malgrado ciò afferma che 30 anni di progresso medico-scientifico spingono a un necessario adeguamento della legge, “per migliorarla, non certo per peggiorarla”. E questa modifica “non solo è lecita ma è anche doverosa”. Ruini parla anche dei “politici cattolici”, che peraltro “nessuno obbliga a essere tali”. Ma se tali si definiscono allora “dovrebbero essere disposti anche ad andare in minoranza per promuovere i valori per la Chiesa non negoziabili”.
Il giudizio mi pare sia così chiaro da non richiedere interpretazioni. Si può solo aggiungere che mentre per la Morresi 30 anni di cambiamenti significano la necessità di difendere la 194 dopo averla combattuta appunto 30 anni fa, per Ruini è proprio questo che rende necessario almeno una modifica della legge, lavorando al contempo per ricreare una cultura della vita (”le condizioni culturali”) che renda possibile abrogarla. Ciò va ben oltre il desiderio di applicarla meglio, che sembra essere l’orizzonte della Vergani e della Morresi (chi fosse interessato può andarsi a risentire le varie edizioni dei Tg nazionali del 4 settembre a questo indirizzo web).

Ma ci sono molte altre affermazioni nell’articolo della Morresi che sono decisamente discutibili, come la seguente: “Nel suo genere, la legge 194 è una buona legge, una delle migliori sull’aborto nel mondo”. La Morresi intende ovviamente affermare che nel mondo quasi tutte le leggi sull’aborto sono più liberali. Questo può essere vero, ma allora è giusto dire che la 194 è “una delle più restrittive”. Non è solo una questione di termini: “restrittivo” è un giudizio “tecnico”, “buona” o “migliore” è un giudizio di valore che ha tutt’altro significato. Tanto per fare un esempio: si sentirebbe la Morresi di affermare che le leggi razziali di Mussolini erano “buone” rispetto a quelle di Hitler?

In ogni modo non è un caso che la 194 non sia stata applicata nelle sue parti “propositive” e che non siano neanche osservate tutte le limitazioni all’aborto che pure la legge prevede. La verità è che quelle parti propositive e quei limiti servivano soltanto a far digerire a un’opinione pubblica – a anche a molti cattolici – un diritto all’aborto che altrimenti non sarebbe mai passato. E’ una strategia ben collaudata, che si ripete in tutti i paesi del mondo con una cultura maggioritaria per la vita. E questo la Morresi, che in Italia è una delle poche ad aver studiato il movimento abortista internazionale, lo sa benissimo.

Quando poi la Morresi afferma che “una legge sull’aborto è necessaria: prima le donne che abortivano erano processate e andavano in galera” mentre uguale sorte non toccava ai “maschi che le mettevano incinte”, bisognerebbe almeno dire che una tale disparità – peraltro più teorica che pratica (sa dirci la Morresi quante donne che hanno abortito sono andate in prigione prima del 1978?) – ha radici culturali e non ci vuole certo una legge che consenta l’aborto per stabilire l’uguaglianza delle responsabilità tra uomo e donna. Anzi, da questo punto di vista la 194 ha peggiorato la situazione lasciando la donna ancora più sola davanti all’aborto, visto che l’impianto stesso della legge risente dell’ideologia femminista per cui “il corpo è mio e me lo gestisco io”. Si dovrebbe anche ricordare che uno dei punti su cui il fronte anti-abortista allora insisteva era proprio quello sull’inclusione del padre nella responsabilità di fronte al nascituro, cosa che i sostenitori della 194 hanno ostinatamente rifiutato proprio perché avrebbe snaturato la loro impronta culturale.

Infine, è utile soffermarsi su quella spaccatura esistente – dice la Morresi – nel fronte “abortista”. Essa definisce due schieramenti: gli abortisti e i “pro-choice”. Gli abortisti sarebbero in pratica quelli dell’aborto libero e facile, i “pro-choice” sarebbero invece una sorta di abortisti compassionevoli, cioè “sostengono la 194” ma anche “vorrebbero che le donne non abortissero più e per questo apprezzano il lavoro dei centri di aiuto alla vita”. Nulla da obiettare sulle diverse ragioni che percorrono il fronte abortista, ma come si fa a definire “pro-choice” il secondo schieramento che – si capisce – dovrebbe essere nostro alleato? La Morresi sa benissimo che “pro-choice” a livello internazionale e in ogni angolo del mondo sta ad indicare gli abortisti tout-court, quelli che non solo si oppongono al diritto alla vita ma oggi chiedono a gran voce che venga riconosciuto a livello internazionale l’aborto come diritto umano universale. “Pro-choice” significa “per la scelta”, ovvero per la libera scelta delle donne di abortire se lo vogliono, è il trionfo del soggettivismo e dell’individualismo. Perché allora creare confusione, suggerendo come oggettiva una definizione che sta solo nella testa di chi l’ha scritta?

La Morresi ha pienamente ragione nel dire che il nemico “non sono le donne che abortiscono”, ma “è l’aborto” e che dunque “chi vuole lavorare per diminuirne il più possibile il numero è mio alleato”, ma la confusione e travestire il male in bene non serve a nessuno. Francamente si fa fatica a sfuggire all’impressione che – come sostiene Verità e Vita – “la tattica si è mangiata la verità”.