L’eutanasia? Non è un atto d’amore Com’era prevedibile la dichiarazione di don Verzè, “staccare
la spina è un atto d’amore”, ha suscitato clamore e
sconcerto.
Tralasciando di entrare nel merito dell’interpretazion
delle parole del fondatore del San Raffaele (che ha
successivamente cercato di precisare meglio il proprio
pensiero), è però opportuno domandarsi se sia mai possibile
configurare l’eutanasia come un atto d’amore, come si sente
spesso dire, per es., ultimamente, in merito alla vicenda di
Piergiorgio Welby.
È chiaro che tale visione dell’eutanasia comporta una
pressione sociale sul medico (e sui parenti del malato): se
dare l’eutanasia è un atto di carità, chi si rifiuta di dare
l’eutanasia è malvagio.
Ora, è vero che l’accanimento terapeutico è moralmente
sbagliato, perciò è doveroso sospendere interventi
terapeutici fortemente invasivi, volti esclusivamente a
procrastinare per brevissimo tempo la morte imminente
provocando inutili sofferenze; ma, una volta chiarita la
distinzione tra l’accanimento e l’eutanasia, non si può
presentare quest’ultima come un atto d’amore.
Infatti, amare qualcuno, già per il non cristiano
Aristotele, significa dirgli “è bene che tu sia, è
meraviglioso che tu esista”, significa rendere grazie per la
sua esistenza, gioire della sua presenza; praticare l’eutanasia
è proprio l’opposto, perché significa dire “non è bene che
tu sia, non è meraviglioso che tu esista”.
Quando qualcuno grida (o sussurra) disperato: “io sono un
peso per te, per me non vale pena esistere in questo stato”,
il vero amore risponde: “è bene che tu sia, è meraviglioso
che tu esista anche se la tua condizione è dolorosa per te e
gravosa per me”.
Richiedere l’eutanasia significa dire “io do fastidio, io
sono un peso che non vale la pena sopportare”, perciò
soddisfare questa richiesta di eutanasia significare dire a
qualcuno: “è vero, tu non vali la pena, la tua esistenza non
è un bene che compensi grandi sforzi, non è bene che tu
esista”.
In effetti chi si occupa dei malati terminali sa bene che le
poche persone che chiedono l’eutanasia fanno tale richiesta
perché si sentono sole. Così, la risposta alla solitudine
non è l’eutanasia, bensì l’affetto, il conforto, la
compagnia.
La vera risposta è prendere per mano il malato, detergergli
il sudore, guardarlo negli occhi, stargli vicino: le rare
richieste di eutanasia o le più frequenti invocazioni della
morte esprimono la richiesta di non essere lasciati soli,
sono una protesta contro la solitudine.
Non a caso la media di coloro che si suicidano tra gli
ammalati di cancro è di gran lunga inferiore a quella dei
suicidi nella popolazione sana, visto che gli ammalati di
cancro sono molto più assistiti e confortati delle persone
sane.
Inoltre il desiderio di ricorrere al suicidio, o la
richiesta di eutanasia, di solito si manifestano quando la
diagnosi viene comunicata e molto spesso spariscono se il
malato viene assistito e confortato.
Giacomo Samek Lodovici
In “Tempi” n.41, 26.10.2006, p. 65