Tempi 23-10-2008
Nel paese dello zio Ho
di Lorenzo Fazzini
"Lei non conosce i comunisti. Se le raccontassi apertamente tutto quello che fanno contro la Chiesa, domani mi arresterebbero e mi manderebbero in prigione". Il vescovo vietnamita che mi fa questa confidenza allarga le braccia sconsolato. Perchè finire in carcere per la propria fede è un’opzione realistica, in un paese in cui il Partito è ancora sovieticamente un dio. Con termini più diplomatici il cardinale Jean-Baptiste Pham Minh Manh, arcivescovo di Ho Chi Minh City, ammette che "la situazione è difficile". Nelle sue parole c’è tutto quel che basta a evocare quella finzione di "libertà" religiosa che stritola la Chiesa in Vietnam. "La Chiesa è libera ma non ha il diritto di esserlo", afferma il cardinale mentre mi apre la porta della sua residenza nei pressi della centralissima cattedrale di Notre Dame. Di fronte al vescovado, sulla facciata dell’ex palazzo presidenziale del Vietnam del Sud, fa mostra di sé un cartellone propagandistico dipinto di rosso. "Il Partito comunista, il governo e il distretto popolare 5 ti dicono: studia e segui l’esempio di zio Ho Chi Minh", recita la scritta, col padre della patria che sorride col suo pizzetto bianco.
In Vietnam i cattolici sono l’8 per cento degli 84 milioni di abitanti e la Chiesa gode di un prestigio sociale indiscusso anche tra i non cristiani, ma dalla fine della scorsa estate le tensioni sono arrivate a un punto di rottura. Oggetto del contendere sono alcuni terreni, edifici e strutture un tempo di proprietà ecclesiastica, confiscati dai vietminh dopo la conquista del potere ad Hanoi, nel Nord, nel 1954; confische che si sono ripetute nel 1975 nel Sud una volta occupata Saigon, l’attuale Ho Chi Minh City. Sono questi beni che ora la Chiesa richiede indietro a un paese che inizia ad aprirsi alle libertà economiche e che nel 2006 è entrato nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, WTO.
Per oltre dieci anni – fino alla metà degli anni Ottanta – i comunisti hanno tenuto chiuse le chiese. La cappella dell’università di Dalat, secondo centro accademico del paese, ha subìto una singolare trasformazione: al posto della croce, sul campanile, oggi svetta una stella rossa di sovietica memoria. I seminari sono divenuti edifici statali. A Huê, antica capitale imperiale, il seminario minore nel quale studiò il futuro cardinale François-Xavier Nguyên Van Thuân, martire della fede, imprigionato per 13 anni, è diventato il più lussuoso albergo della città. Il convento carmelitano di Hanoi – qui Santa Teresa di Lisieux sognava di venire missionaria – è stato trasformato in un ospedale. Una chiesa a pochi passi dall’ambasciata d’Italia nella capitale è divenuta un magazzino.
Di fronte a episodi di corruzione sfacciata, in cui i terreni vengono venduti a industrie statali o private in cambio di cospicue tangenti ai funzionari di governo, i cattolici sono scesi in piazza. In piazza a pregare, come spiegano alla conferenza episcopale vietnamita, che raccoglie i vescovi delle 27 diocesi del paese. La Chiesa esige la restituzione di proprietà di cui oggi ha più bisogno che mai per accudire un popolo di fedeli in crescita: solo a Ho Chi Minh City si contano ogni anno 9 mila battesimi di adulti. Fedeli e pastori si pongono una domanda semplice: perché in un Vietnam che cresce economicamente al tasso dell’8 per cento all’anno, con aziende giapponesi e “yankee” che investono, grattacieli che spuntano come funghi assieme a hotel di lusso (nella località costiera di Nha Trang il il vescovado è ora circondato da un nuovo hotel Hilton a destra e da due torri avveniristiche a sinistra), la Chiesa non ha il diritto di vedersi riconsegnati beni e proprietà portati via con la forza trent’anni fa?
A metà agosto hanno iniziato a manifestare pacificamente i fedeli della parrocchia redentorista di Thai Ha, nei sobborghi di Hanoi. Su un terreno di 14 mila metri quadrati, che le autorità sostengono falsamente essere stato ceduto dai religiosi allo Stato negli anni Sessanta, un’azienda statale vuole costruire una strada. La polizia è intervenuta con bastoni elettrici e gas irritanti contro anziani e bambini. Sei persone sono state arrestate. Perché?
"Perché pregavano in maniera pacifica. Questa violazione dei diritti dell’uomo è inaccettabile, lo scriva e lo dica al mondo". Monsignor Joseph Ngo Quang Kiet, arcivescovo di Hanoi da poco più di 3 anni, non ha paura di denunciare quanto avvenuto a Thai Ha e non solo. Ora lui è nell’occhio del ciclone per essersi schierato prima a fianco della parrocchia redentorista e poi per aver guidato la più grande manifestazione di protesta non violenta che si ricordi ad Hanoi dal 1954.
Il 21 settembre 10 mila persone si sono radunate a pregare sul piazzale dell’ex nunziatura apostolica, adiacente al vescovado di Hanoi, nel centralissimo distretto di Hoàn Kiem. La protesta era la risposta al fatto che dopo nove mesi di trattative con le autorità della capitale, due giorni prima, di notte, improvvisamente, bulldozer e operai edili scortati da esercito e polizia erano entrati nel terreno dell’ex delegazione apostolica per realizzare un parco pubblico.
"Non ci hanno avvertiti, hanno fatto tutto in maniera unilaterale interrompendo il dialogo che portavamo avanti da mesi", è la lamentela che arriva dai piani alti della Chiesa vietnamita. Il cardinale Pham Minh Manh rincara la dose: "Ho pubblicamente ribadito che la politica della Chiesa si basa su un dialogo fondato su verità, giustizia e carità. Ma questo dialogo è difficile perché tale parola, dialogo, neppure esiste nel vocabolario comunista, come non esiste il termine solidarietà".
Ora le preghiere di protesta sono state sospese, come i lavori edilizi. Intanto però monsignor Kiet ha vissuto da sorvegliato speciale per alcune settimane. Andare a incontrarlo significava passare tra registratori, macchine fotografiche e cineprese nascoste, piazzate intorno al vescovado per identificare chiunque si avvicinasse a lui. Solo dopo la prima settimana di ottobre questo vescovo di 56 anni che ha studiato all’Institut Catholique a Parigi e ha guidato due diocesi del Nord – dove i cattolici sono stati ridotti a soli 6 mila fedeli dalla repressione comunista – ha potuto comparire di nuovo in pubblico. Per assistere all’ordinazione episcopale del nuovo vescovo di Bac Ninh, 30 chilometri a nord dalla capitale, i fedeli lo hanno quasi travolto nel manifestargli la loro solidarietà in questa sua coraggiosa azione per la libertà della Chiesa.
Infatti, quella che potrebbe sembrare una mera questione edilizia è in realtà un atto di repressione della Chiesa. Da alcune voci autorevoli del cattolicesimo vietnamita arrivano stringenti argomentazioni sul perché questa vicenda – la restituzione dei beni confiscati – sia la linea di resistenza da cui dipende il futuro del cattolicesimo nella patria di zio Ho.
"Abbiamo chiesto molte volte al governo, con domande scritte, la restituzione delle nostre proprietà, di cui possediamo i documenti. Il più delle volte le autorità non ci hanno nemmeno risposto. Qualche volta hanno detto: vediamo, stiamo valutando", spiega padre Thomas Vu Quang Trung, provinciale dei gesuiti a Thu Duc, periferia di Saigon. "Nel ’75, dopo l’espulsione dei religiosi stranieri, il ragionamento del governo è stato semplice: siete troppo pochi per tutte queste strutture, le prendiamo noi per usarle per il popolo".
Padre Trung allarga le braccia: "Si può anche accettare che usino una nostra vecchia proprietà, come la nostra casa di Dalat, per uno scopo pubblico, cioè per farne scuole o ospedali. Ma farle diventare una discoteca, come è capitato a una struttura di suore a Ho Chi Minh City, questo no! Il nostro studentato di Hu è diventato un supermercato. Le nostre richieste di restituzione continuano, anche perché è una questione che riguarda non solo i cattolici, ma tutte le confessioni religiose e anche la gente normale, il popolo. Le due vertenze del Nord – l’ex nunziatura di Hanoi e la parrocchia redentorista – non riguardano solo la proprietà di un terreno, ma il modo in cui è amministrata la giustizia".
Padre John Nguyen Van Ty, già superiore dei salesiani, consigliere del cardinale Pham Minh Manh, è ancora più esplicito: "Le autorità temono un effetto domino: se cedono su Hanoi, c’è il rischio che tutte le religioni reclamino le loro esigenze in nome della giustizia. Questa vicenda di Hanoi, secondo alcuni, può essere la scintilla che fa bruciare tutto. Sia i cattolici del Vietnam che quelli della diaspora sono uniti: non cediamo, è una questione di giustizia, non di libertà religiosa ma di diritto. Fa bene il Vaticano a non intervenire sulla questione, considerandola un affare della Chiesa locale. Altrimenti la cosa verrebbe considerata un fatto solo confessionale e invece è un problema di giustizia. Certo, stanno facendo pesanti intimidazioni con minacce all’arcivescovo, incursioni di bande violente, arresti di cattolici, insulti quotidiani sui media contro la Chiesa. I comunisti hanno paura dei cattolici perché sono la religione organizzata più forte in tutto il paese. Ma tra gli intellettuali, docenti universitari, studenti e giornalisti, si inizia a capire la realtà, cioè che il comunismo opprime, e vedono nella Chiesa un luogo di libertà".
Padre Francis Xavier Phan Long, guida della provincia francescana, spiega che i vescovi vietnamiti hanno fatto benissimo a "piantare il chiodo" della proprietà privata, chiedendo pubblicamente al governo di rivedere la legge – "sorpassata e datata" l’ha definita il presidente della conferenza episcopale, monsignor Peter Nguyen Van Nhon – che assegna solo allo Stato il possesso della terra.
"Sono contento del fatto che i vescovi abbiano avuto per la prima volta una posizione comune su un problema concreto. Di solito, quando facevano la loro assemblea annuale, emettevano un comunicato finale che riguardava questioni molto generali", spiega padre Long nel suo ufficio nel centro di Ho Chi Minh City. "Questa volta, in maniera nuova, hanno affrontato una questione calda come quella di Hanoi, insistendo sul dialogo franco e diretto con le autorità. Non sappiamo se la legge sulla proprietà privata cambierà, ma noi ci speriamo. Io una cosa alle autorità l’ho già detta…".
Che cosa? Risponde: "Quando sono iniziati i fatti di Hanoi, il ministero della sicurezza mi ha convocato per chiedere la mia opinione su quanto stava accadendo. Ho avvertito che se il governo in futuro si impossessasse di proprietà dei francescani noi saremo pronti a lottare. Pacificamente, visto che siamo figli di san Francesco. Ma non saremo comunque disposti a rinunciare alla lotta".