Teologi agguerriti mettono in croce la teologia in ginocchio di Kasper
(di Matteo Matzuzzi su Il Foglio del 24-07-2014)
Roma. “Consideriamo il recente volume del cardinale Kasper, basato sul suo discorso al Concistoro, come una tipica proposta sul divorzio e il nuovo matrimonio”.
A scriverlo, in un corposo articolo che sarà pubblicato sul numero di agosto della rivista Nova et Vetera, otto teologi statunitensi – tra cui sette domenicani – docenti alla Pontificia facoltà dell’Immacolata concezione di Washington, all’Ateneo dell’Ohio e alla Catholic University of America. “Le proposte del cardinale Kasper sono simili a quelle che, negli ultimi mesi, erano apparse sui media in quanto discusse dalla Conferenza episcopale tedesca”, notano prima di tutto gli estensori del saggio, aggiungendo che “sebbene di per sé relativamente semplici, tali proposte sollevano un’ampia gamma di questioni teologiche”.
Il punto di partenza per ogni discussione in vista del Sinodo, osservano, è che “un matrimonio rato e consumato tra due battezzati non può essere sciolto da alcun potere umano, incluso quello di vicario che è assegnato al Romano Pontefice”. E’ stato Giovanni Paolo II, prosegue il saggio, a chiarirlo “una volta per tutte”.
Se la chiesa “dovesse cedere alle crescenti pressioni che vorrebbero metterla a tacere sulla dimensione pubblica del matrimonio, ciò costituirebbe un passo verso uno sviluppo in negativo e vorrebbe dire abbandonare un elemento essenziale nonché la ragione stessa del matrimonio”.
Dallo studio delle proposte illustrate dal cardinale Kasper, si legge sulla rivista fondata nel 1926 dal futuro cardinale Charles Journet e da Jacques Maritain, e oggi diretta dal cardinale Georges Cottier, ciò che emerge è “una sfiducia nella castità”. “L’eliminazione dell’obbligo della castità per i divorziati – scrivono i teologi domenicani – costituisce la principale innovazione delle proposte medesime, dato che la chiesa permette già ai divorziati risposati, che per un motivo grave continuano a vivere insieme, di ricevere la comunione qualora accettino di vivere come fratello e sorella e non vi è pericolo di scandalo.
L’assunto delle attuali proposte, a ogni modo, è che tale castità sia impossibile per i divorziati. Forse che ciò non evidenzia una velata disperazione nei confronti della castità e del potere della grazia di sconfiggere il peccato e il vizio?”.
Smentita, poi, la tesi del porporato tedesco secondo cui il Primo concilio di Nicea abbia decretato l’ammissione dei divorziati risposati alla comunione: “Tale affermazione costituisce un’errata lettura del Concilio e travisa le controversie sul matrimonio del I e del III secolo”.
Niente da fare neppure per la prassi delle chiese ortodosse, pure citata dal Papa un anno fa conversando con i giornalisti a bordo dell’aereo che lo riportava a Roma dopo la settimana trascorsa in Brasile: “La chiesa cattolica ha più volte ribadito di non potere ammettere la prassi ortodossa” e, tra l’altro, “le proposte più recenti invocano ciò che neanche gli ortodossi d’oriente accetterebbero: la comunione per coloro che contraggono unioni civili non consacrate”, osservano i docenti di Teologia firmatari dell’articolo su Nova et Vetera, aggiungendo che “ammettere alla comunione richiederebbe inevitabilmente che la chiesa cattolica riconoscesse e benedicesse i secondi matrimoni dopo il divorzio, il che è evidentemente contrario alla dottrina cattolica già stabilita e a quanto espressamente insegnato da Cristo”.
Non valgono neppure i richiami alla misericordia: “Ipotizzare che una persona che si mette in condizione di avere rapporti coniugali con un’altra persona – se il primo matrimonio è valido – possa ricevere il perdono nel sacramento della penitenza, senza pentirsi realmente e confessare tale peccato, è semplicemente incompatibile con quanto sancito dalla dottrina cattolica”. Aggiornare questo assunto alle attese dei fedeli e allo spirito del tempo significa cambiare la dottrina, mettono nero su bianco gli otto teologi statunitensi, che si rifanno anche a quanto scrisse nella Familiaris Consortio Giovanni Paolo II, aggiungendo che ammettere i divorziati risposati alla comunione “indurrebbe i fedeli a credere, almeno implicitamente, che divorziare e risposarsi sono cose accettabili. In più, farebbe sorgere la questione del perché altre persone che vivono in peccato grave non possano anch’esse ricevere la comunione. Lo scandalo dunque crescerebbe”.
La conclusione, per gli estensori del saggio, non può che essere una, e cioè la certificazione che “gli insegnamenti della chiesa sul matrimonio, sulla sessualità e sulla virtù della castità derivano da Cristo e dagli apostoli. Essi sono perenni. Non possono essere cambiati e, anzi, vi è la necessità di tornare ad enunciarli continuamente”.
Matteo Matzuzzi