Chiesa tedesca verso la scomparsa

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L’erosione dell’ordinamento sacramentale cattolico in Germania

 

Commento al comunicato stampa
della Conferenza Episcopale Tedesca del 1 febbraio 2017

di Christian Spaemann

E così ci si è arrivati. I vescovi tedeschi hanno fatto qualcosa di cui non avevano assolutamente la potestà: hanno indebolito l’ordinamento sacramentale della Chiesa cattolica. I fedeli in situazioni irregolari, vale a dire in relazioni sessuali stabili al di fuori di un matrimonio sacramentale, avranno la possibilità di ricevere i sacramenti. Quel che qui conta è «rispettare … la loro decisione di ricevere i sacramenti». I sacerdoti che si attengono alla prassi sinora in vigore, secondo il documento dei vescovi, dovranno far cadere la tendenza a un «giudizio sbrigativo» e a un «atteggiamento rigoristico ed estremo». I vescovi hanno fatto propria la logica di un falso concetto di misericordia, con conseguente caricatura di coloro che seguono il magistero della Chiesa cattolica e la sua intrinseca ragionevolezza.

Nel loro documento i vescovi tedeschi violano delle norme chiare, che numerosi papi, in particolare Giovanni Paolo II, e il Catechismo della Chiesa Cattolica hanno stabilito in maniera inequivocabile in linea con tutta la tradizione magisteriale della Chiesa. Il richiamo dei vescovi all’esortazione postsinodale “Amoris Laetitia” di papa Francesco, non giustifica questo modo di procedere, dal momento che essa deve essere interpretata alla luce della tradizione. Diversamente, non le si dovrebbe prestare la propria sequela, dal momento che il Papa non sta al di sopra della tradizione magisteriale della Chiesa.

Nella sostanza, il punto è che, secondo l’insegnamento della Chiesa, vi sono norme che valgono senza eccezioni e non sono soggette a valutazioni particolari, che possano, cioè, essere decise caso per caso in maniera diversa. Ciò rientra nella natura stessa della persona umana, cui compete una dignità che impone determinati limiti nell’approccio con se stessi e con gli altri. Rientra qui la sessualità umana, che non può essere strumentalizzata o vissuta al di fuori di certi contesti, senza ferire la propria dignità o risultare colpevole, indipendentemente da come debbano essere valutate le circostanze soggettive e, quindi, la colpa personale. Se qualcuno, per esempio, ha un disturbo cerebrale organico, a causa del quale non può governare i suoi affetti e in conseguenza del quale continua a insultare sua moglie, egli, malgrado questo fatto, finisce lo stesso per macchiare la sua relazione con lei e continuerà a provare dispiacere per come la tratta, anche se non può farci nulla o quasi nulla.

La sessualità umana può essere intesa solo a partire dal suo significato. Secondo la concezione cristiana, essa è espressione della comunione tra uomo e donna, su un piano biologico, corporeo, spirituale e personale, «un simbolo reale della donazione di tutta la persona» (Giovanni Paolo II, esortazione postsinodale “Familiaris Consortio” (FC 80). 
Della persona nella sua integralità fanno parte il passato e il futuro e, pertanto, la donazione di tutta la persona è possibile solo nel pieno coinvolgimento del suo passato e del suo futuro, così come si esprime nel Sì del matrimonio.
Per questa ragione la Chiesa colloca da sempre la sessualità della persona umana nel contesto del matrimonio, come l’unico luogo, dove essa può essere vissuta in corrispondenza con la dignità che Dio ha voluto per essa. Si tratta di un comandamento e non di un ideale, come, invece, si continua a chiamarlo.
Ogni esercizio della sessualità che non corrisponda a questo comandamento costituisce, oggettivamente, una separazione della persona interessata dalla sua vocazione, vale a dire, un peccato.
Su questo non ci sono eccezioni.
Allo stesso modo, i metodi artificiali, che hanno come scopo impedire il concepimento, violano sempre la dignità dell’atto sessuale, perché i partner, in qualche modo, finiscono per considerarsi reciprocamente come oggetto, anche qualora si fosse in  presenza di circostanze difficili e i partner fossero sicuri  di avere delle buone intenzioni l’uno verso l’altro. Il linguaggio del corpo costituisce, infatti, una realtà oggettiva, che non si può travalicare mediante un atteggiamento soggettivo.
Si è qui di fronte al cosiddetto “actus intrinsece malus”. Con questa espressione si intendono atti o contesti di atti che, in nessun caso, possono essere definiti come buoni. Tommaso d’Aquino ha elaborato questo concetto e Giovanni Paolo II lo ha fissato come magistero vincolante della Chiesa nella sua enciclica “Veritatis Splendor” (VS 79). In base ad esso «le circostanze o le intenzioni non potranno mai trasformare un atto intrinsecamente disonesto per il suo oggetto in un atto “soggettivamente” onesto o difendibile come scelta» (VS 81). Questo principio vale in maniera specifica per la sessualità umana.

Un punto decisivo nell’attuale confusione riguardo al magistero ecclesiale in questo ambito sta nella lettura riduttiva delle affermazioni di Giovanni Paolo II nella sua enciclica “Familiaris Consortio” (FC 84). Essa è emersa anzitutto nella Relatio del gruppo sinodale di lingua tedesca, del 21 ottobre 2015, e, successivamente, ha trovato accesso nel documento conclusivo del sinodo. Essa è stata ripetuta in numerose presi di posizione di vescovi e cardinali e ha trovato espressione in AL, ripresentandosi oggi nell’ultimo comunicato stampa della Conferenza Episcopale Tedesca.
Che cosa è accaduto? Nell’articolo 84 FC, trattando dei divorziati risposati, si afferma che si devono «ben distinguere le diverse situazioni».  In questo passo si citano alcune motivazioni, umanamente comprensibili, per cui delle persone sposate, dopo una separazione, avviano una nuova unione. È chiaro che all’allora pontefice premeva richiamare il lato soggettivo delle situazioni coinvolte e una valutazione della responsabilità morale che doveva essere applicata in maniera differenziata ai singoli casi, in maniera tale da sensibilizzare il clero a una pastorale attenta e discreta.
Proprio qui, però, c’è il punto decisivo: Giovanni Paolo II non  ne deduce affatto che nei singoli casi di colpa soggettiva diminuita o superata sia possibile l’accesso ai sacramenti. Al contrario, poche righe più sotto introduce con un chiaro “Nihilominus …” il limite della situazione oggettiva di disordine che vale per tutti coloro che vivono in una tale situazione: «La Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati. Viene, poi, una precisazione decisiva:  i divorziati risposati sono da ammettere ai sacramenti solo se «assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi».

Il linguaggio del corpo nella sessualità non può, dunque, essere travalicato semplicemente mediante delle circostanze attenuanti né una situazione oggettiva di peccato può essere legittimata mediante l’amministrazione dei sacramenti. Una differenziazione per casi singoli non è qui possibile. Questo insegnamento e l’ordinamento sacramentale che ne risulta, in accordo con tutta la tradizione magisteriale della Chiesa, è stato espressamente confermato nei successivi documenti del magistero, tra l’altro nel Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC 1650) e nell’esortazione postsinodale di Benedetto XVI “Sacramentum Caritatis” (29).

Questo passaggio decisivo di FC è stato, invece,  sistematicamente tralasciato nei documenti più recenti. Si tratta di un tentativo, chiaramente non trasparente, di armonizzare dei testi contradditori. Invece di prendere posizione rispetto alla netta delimitazione del “Nihilominus”, nei testi pubblicati su questo tema si mantiene la prospettiva soggettiva della situazione irregolare. Si raccomanda, così, un approfondito esame di coscienza, con il quale la persona coinvolta, nel cosiddetto “forum internum”, l’ambito della coscienza individuale, dovrebbe riflettere sul passato e sul presente delle proprie relazioni (tra gli altri AL 300). In tal modo si desta l’impressione che la volontà di far luce e rielaborare le conseguenze morali e psicologiche di un divorzio e di un nuovo matrimonio civile, come, per esempio, il  chiarimento delle responsabilità nei confronti del partner precedente o della relazione con i figli nati dal primo matrimonio, possa essere presupposto sufficiente per l’ammissione ai sacramenti. 

Secondo l’insegnamento della Chiesa, invece, in casi simili tali premesse sussistono solo quando siano rispettati i criteri oggettivi dell’ordinamento cristiano della vita, vale a dire o l’astinenza sessuale o la non validità del matrimonio sacramentale, magari dimostrabile solo nel foro interno. Proprio qui sta la linea di rottura con l’insegnamento della Chiesa, che, esattamente in questo punto non viene affatto portato al suo sviluppo o approfondita, come continuamente si sostiene.

La logica interna di una pastorale della misericordia, unicamente orientata alla soggettività dei fedeli, porta di per sé molto oltre la questione dei divorziati risposati civilmente. Nei corrispondenti documenti, come, per esempio, nella Dichiarazione dei vescovi tedeschi, si continua,  difatti, a parlare di «situazioni irregolari». Coloro che «non sanno ancora decidersi per il matrimonio» vengono, a loro volta, citati in questo contesto. Appare allora del tutto conseguente che anche la LGTB-Community voglia prendere la parola nella Chiesa e pretenda che sia allentata la disciplina per ciò che la compete (https://newwaysministryblog.wordpress.com/2017/01/23/instructions-on-amoris-laetitia-from-maltas-bishops-can-inform-lgbt-issues-too/, vgl. hierzu auch http://www.kath.net/news/57028). Perché, del resto, dovrebbero essere esclusi?  Ovviamente questo tipo di sviluppo non si ferma nemmeno davanti all’enciclica “Humanae Vitae” di Paolo VI, che viene messa in dubbio nella sua non equivocabilità (Instrumentum laboris 2016, Art. 137; cfr., qui, anche http://www.kath.net/news/54124).

Le conseguenze del nuovo concetto di misericordia non possono essere limitate al solo ambito delle relazioni di coppia e della sessualità. Così, proprio richiamandosi ad AL, una parte dell’episcopato canadese, ha stabilito di concedere l’accompagnamento dei sacramenti della Chiesa in prossimità della morte a delle persone che intendono avvalersi del suicidio assistito o dell’eutanasia (https://cruxnow.com/global-church/2016/09/21/canadian-bishops-issue-guidelines-assisted-suicide-cases/).

Ci troviamo solo all’inizio di quanto può svilupparsi da questa concezione della misericordia.  Lungo una simile china scivolosa si può con certezza prevedere che cosa sta per arrivare: si deve solo seguire la logica. Quel che qui accade è fatale anche perché nei relativi documenti ecclesiali non viene più cercato alcun collegamento  ragionevole con la tradizione ecclesiale. Si mette così in questione l’intima unità di fede e ragione. In molti fedeli si fa strada quindi l’impressione di una sorta di possibilità di costruire a piacimento in quel che riguarda la fede, la morale e la pastorale e tutto questo spinge l’avanzata del relativismo. 
All’idea che si va diffondendo che il cristianesimo cattolico  possa elaborare il proprio insegnamento facendo a meno del diritto naturale, dell’antropologia e della coerenza interna dei propri contenuti, sembra ispirarsi il breve tweet del gesuita italiano Antonio Spadaro: «La teologia non è matematica. 2 + 2 in teologia può far 5 … » (Epifania 2017).

La domanda che ora si pone è se i sacerdoti che si attengono all’ordinamento sacramentale della Chiesa sinora tramandato, possano essere definiti come rigoristi, estremisti e privi di misericordia. Questi verdetti colpiscono anche san Giovanni Paolo II e, con lui innumerevoli sacerdoti in tutto il mondo? Ovviamente, no.  Chiarire che esistono dei limiti non è di per sé assenza di misericordia.
Rigorista sarebbe un sacerdote che, per esempio, sottoporre a pressioni, senza considerazione per il contesto e per le conseguenze, una donna risposata, con tre figli, e pretendere che sin da subito si rifiuti al marito, minacciandole l’inferno.
Rigorista sarebbe anche un sacerdote che si rifiutasse di accompagnare pastoralmente, in maniera generica,  una persona che ha deciso di chiedere l’eutanasia. Ben difficilmente si possono negare l’accompagnamento, la benedizione e la preghiera.
Invece, spiegare alla persona interessata perché non può ricevere l’assoluzione sacramentale nella Confessione o la Comunione non ha nulla a che fare con il rigorismo. Conosco sacerdoti che hanno ottimi contatti con delle persone in situazioni irregolari, che le trattano con rispetto, le integrano nella loro parrocchia, senza amministrare loro i sacramenti.

Dei concetti sociologici oggi così frequentemente usati nella Chiesa, come “inclusione” o “nessuno deve essere rifiutato”, soggiacciono spesso a un equivoco di fondo. Se un paziente cerca il mio aiuto come medico, neppure il più radicale sostenitore della psichiatria sociale pretenderebbe da me che io accettassi da prescrivere a quel paziente il farmaco che lui a tutti i costi vuole avere. È da sempre un fatto ovvio e parte della liturgia, sia in Oriente che in Occidente, che i fedeli confessino i loro peccati in forma generale, prima di unirsi al Signore nella Comunione. Prendiamo le distanze dai nostri peccati, ci rivolgiamo al Signore e riceviamo nella Comunione il suo perdono. Nel caso dei peccati gravi il sacramento della Confessione deve precedere la Comunione. È quindi altrettanto ovvio che le persone, che vivono in relazioni sessuali obiettivamente disordinate, non partecipino alla Comunione, qualora, per qualunque ragione si tratti, non si sentano in condizione di rinunciarvi.

È fuori discussione che esistano numerose situazioni di vita, in cui delle relazioni sessuali vengano vissute al di fuori di un matrimonio valido.  A questo proposito c’è, però, una differenza fondamentale se si conserva il timore reverenziale davanti alla santità di Dio e ai suoi comandamenti mediante l’astinenza eucaristica, sperando nella Sua misericordia, o se  ci si arroga il giudizio su se stessi, senza cambiare la situazione di vita che contraddice i comandamenti, pretendendo di discolparsi, mediante la confessione di altri peccati e l’unione con Cristo nella Comunione. La constatazione delle «circostanze attenuanti», vale a dire il giudizio soggettivo di chi amministra e di chi riceve il sacramento, non può passare sopra la situazione oggettiva.
La Chiesa su questo punto non ha affatto la piena potestà. La grazia di Dio non è legata ai sacramenti, ma solo a Lui compete in questi casi il giudizio, e noi non lo conosciamo. «La Tua parola è luce ai miei passi», si legge nel salmo (119, 105). Proprio nei casi in cui alla stessa persona interessata, a chi le sta intorno e a chi l’ha in cura d’anima appare particolarmente difficile vederla come peccato, si dovrebbe tener presente che noi non conosciamo la volontà assoluta di Dio e, quindi, non possiamo superare i limiti del cono di luce che ci è concesso. Qui si richiede l’umiltà, non l’amministrazione dei sacramenti. La misericordia di Dio non può essere imposta per decreti.

L’affermazione dei vescovi tedeschi che nel discernimento riguardo all’amministrazione del sacramento in situazioni irregolari «la coscienza di tutte le persone coinvolte sia da prendere nella massima considerazione», il fatto che i sostenitori del nuovo concetto di misericordia parlino di «situazioni complesse» e la tesi secondo cui non ci sarebbero «soluzioni semplici», appaiono come argomenti mendaci che rendono opachi dei dati di fatto di per sé semplici. 
Perché dovrebbe essere difficile per le persone coinvolte stabilire se vivono in castità o no? Anche chiarire se il matrimonio contratto sacramentalmente sia stato invalido o no è qualcosa che senza particolari strapazzi per la coscienza può essere chiarito con l’aiuto di un esperto canonista. In una delle sue ultime interviste l’anziano e saggio Konrad Adenauer, richiesto circa la sua propensione a semplificare, disse che si devono vedere le cose così profondamente da renderle semplici. Se si rimane solo alla superficie delle cose, esse non sono semplici, ma se si guarda in profondità, allora si vede quel che è reale, e questo – spiegava – è sempre semplice.

Coloro che vogliono allentare l’ordinamento sacramentale cattolico, se si guardano le cose in questo modo, non possono certo richiamarsi alla misericordia divina. In tal caso non si finisce certo per fare il bene delle persone coinvolte. È scandaloso vedere come a questo scopo essi si richiamino al diario della santa suora Faustyna Kowalska. Giovanni Paolo II fu colui che ne riconobbe l’importanza e che canonizzò questa semplice religiosa. Io stesso, qualche anno fa, studiai a fondo questo libro e non vi trovai nemmeno una traccia di incoraggiamento a pretendere di andare oltre i limiti rispetto alla misericordia di Dio fonte di timore e tremore. Al contrario, spirito e lettera di questo scritto si muovono in tutt’altra direzione.

Tutti i fedeli che vivono in relazioni sessuali irregolari, soprattutto coloro che si trovano dalla parte delle vittime, che sono stati feriti, abbandonati, forse persino abusati, e che si sono già sforzati di vivere in castità, in breve, tutti coloro che meritano in maniera particolare la comprensione della Chiesa, sono esortati a non fare uso delle nuove possibilità di ricevere il Sacramento. Essi, mediante l’astinenza eucaristica, possono a loro modo rendere testimonianza alla santità di Dio e dei suoi comandamenti. In tal modo, essi potrebbero anche stare più vicini a Dio di alcuni di coloro che, in nome di una falsa idea di misericordia, vogliono amministrare i sacramenti.

(Traduzione dal tedesco di Giuseppe Reguzzoni http://www.kath.net/news/58530 . da http://www.corrispondenzaromana.it/lerosione-dellordinamento-sacramentale-cattolico-in-germania/)

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Vescovi coraggiosi: Card. Sarah

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 «Scismi, sacrilegi e poca fede scuotono la Messa»

 Sarah rimette al centro la questione liturgica 

 

Dal 29 marzo al 1° aprile si è tenuto a Herzogenrath, in Germania, il 18° incontro liturgico di Colonia sul tema del decimo anniversario del Motu proprio Summorum pontificum di Benedetto XVI. Nel 2007 con questo motu proprio l'attuale papa emerito riportava in piena luce il cosiddetto vetus ordo, la liturgia celebrata secondo il rito romano precedente la riforma post conciliare. Il prefetto della Congregazione per il Culto divino, il guineiano cardinale Robert Sarah, non potendo essere presente all'incontro ha inviato un messaggio che certamente farà parlare di sé (QUI l'originale in francese). 

RECIPROCO ARRICHIMENTO TRA I DUE RITI

Il cardinale ha ricordato la Lettera ai vescovi che ha accompagnato il motu proprio di papa Benedetto XVI. In quel testo si precisava che la decisione di far coesistere le due forme del rito romano non aveva solo lo scopo di soddisfare i desideri di gruppi di fedeli legati alle forme liturgiche precedenti il Concilio Vaticano II, «ma anche di permettere l'arricchimento reciproco delle due forme dello stesso rito romano, vale a dire non soltanto la loro coesistenza pacifica, ma la possibilità di perfezionarsi evidenziando i migliori elementi che li caratterizzano».

Laddove il motu proprio è stato accolto, dice Sarah, «si è potuta notare una ripercussione e una evoluzione spirituale positiva nel modo di vivere le celebrazioni eucaristiche secondo la forma ordinaria [del rito], in particolare la riscoperta degli atteggiamenti di adorazione verso il Santo Sacramento (…), e anche un maggior raccoglimento caratterizzato dal silenzio sacro che deve sottolineare i momenti importanti del Santo Sacrificio della messa, per permettere ai preti e ai fedeli di interiorizzare il mistero della fede che viene celebrato». D'altra parte occorre «superare un certo “rubricismo” troppo formale spiegando i riti del Messale tridentino a quelli che non li conoscono ancora, o li conoscono in un modo parziale».

UNA RIFORMA IN ROTTURA

La liturgia «deve sempre riformarsi per essere più fedele alla sua essenza mistica. Ma per molto tempo, questa “riforma” che ha sostituito il vero “restauro” voluto dal concilio Vaticano II, è stata realizzata con uno spirito superficiale e sulla base di un solo criterio: sopprimere a tutti i costi un patrimonio percepito come totalmente negativo e sorpassato, al fine di creare un abisso tra il prima e il dopo concilio. Ora si tratta di riprendere la Costituzione sulla santa Liturgia [Sacrosantum concilium] e di leggerla onestamente, senza tradirne il senso, per vedere che il vero obiettivo del Vaticano II non era quello di intraprendere una riforma che potesse divenire l'occasione di rottura con la Tradizione, ma al contrario, di ritrovare e di confermare la Tradizione nel suo significato più profondo».

LA CRISI DELLA CHIESA E LA CRISI LITURGICA

Ricordando la famosa indicazione espressa in diverse occasioni già dall'allora cardinale Joseph Ratzinger, il prefetto ha sottolineato che «la crisi che scuote la chiesa da circa una cinquantina d'anni, soprattutto dopo il concilio Vaticano II, è legato alla crisi della liturgia, e quindi dal mancato rispetto, la desacralizzazione e la riduzione alla dimensione orizzontale degli elementi essenziali del culto divino». 

Anche se il Concilio ha voluto promuovere una maggior partecipazione attiva del popolo di Dio, «noi non possiamo chiudere gli occhi sul disastro, la devastazione e lo scisma che i promotori moderni di una liturgia viva hanno provocato rimodellando la liturgia della Chiesa secondo le loro idee. Essi hanno dimenticato che l'atto liturgico è, non soltanto una preghiera, ma anche e sopratutto un mistero nel quale si realizza per noi qualche cosa che noi non possiamo comprendere pienamente, ma che noi dobbiamo accettare e ricevere nella fede, nell'amore, nell'obbedienza e nel silenzio adoratore. E questo è il vero senso della partecipazione attiva dei fedeli».

LA LITURGIA COME SACRIFICIO E GLORIFICAZIONE DI DIO

C'è una «grave crisi di fede», secondo Sarah, che dobbiamo riconoscere «non solo a livello dei fedeli, ma anche e sopratutto presso numerosi preti e vescovi, che ci ha messo nell'incapacità di comprendere la liturgia eucaristica come un sacrificio, come atto identico, compiuto una volta per tutte da Gesù Cristo, e che rende presente il Sacrificio della Croce in una maniera non cruenta, ovunque nella Chiesa, attraverso tutti i tempi, luoghi, popoli e nazioni. Si ha spesso la tendenza sacrilega di ridurre la Santa messa a un semplice pasto conviviale, alla celebrazione di una festa profana e a una autocelebrazione della comunità, o peggio ancora, a un mostruoso intrattenimento contro l'angoscia di una vita che non ha più senso, o contro la paura di incontrare Dio faccia a faccia, perché il suo sguardo svela e ci obbliga a guardare in verità la nostra interiorità». 

Molti «ignorano che la finalità di tutte le celebrazioni è la gloria e l'adorazione di Dio, la salute e la santificazione degli uomini, poiché, nella liturgia, “Dio è perfettamente glorificato e gli uomini santificati (Sacrosantum concilium n° 7). Questo è l'insegnamento del Concilio, una maggioranza dei fedeli, preti e vescovi compresi, lo ignorano».

L'ADORAZIONE DI DIO E NON DELL'UOMO

«Come ha spesso sottolineato Benedetto XVI», ha scritto il cardinale, «alla radice della liturgia si trova l'adorazione, e quindi Dio. Pertanto, bisogna riconoscere che la grave e profonda crisi che, dopo il Concilio, influenza e continua a influenzare la liturgia e la stessa Chiesa, è dovuta al fatto che il suo centro non è più Dio e la sua adorazione, ma gli uomini e la loro pretesa capacità di “fare” qualche cosa per occuparsi durante la celebrazione eucaristica.

Anche oggi, un numero importante di ecclesiastici sotto-stimano la grave crisi che attraversa la Chiesa: relativismo nell'insegnamento dottrinale, morale e disciplinare, gravi abusi, desacralizzazione e banalizzazione della santa liturgia, visione puramente sociale e orizzontale della missione della Chiesa. Molti credono e affermano in modo alto e forte che il concilio Vaticano II ha suscitato una vera primavera nella Chiesa. Tuttavia, un numero crescente di di ecclesiastici stanno prendendo in considerazione questa “primavera” come un rifiuto, una rinuncia del patrimonio secolare, a anche come una rimessa in causa radicale del passato della Chiesa e della sua Tradizione. Si accusa l'Europa politica di abbandonare o di negare le sue radici cristiane. Ma la prima ad avere abbandonato le sue radici e il suo passato cristiano, è incontestabilmente la Chiesa cattolica postconciliare».

LA TRADUZIONE DEL MESSALE

A proposito di un argomento attuale, vista la commissione recentemente istituita e che sta lavorando proprio su questo tema, il cardinale ha specificato che «certe Conferenze episcopali rifiutano anche di tradurre fedelmente il testo originale latino del Messale romano. Alcuni reclamano che ogni chiesa locale possa tradurre il messale romano, non secondo il patrimonio sacro della Chiesa e in base ai metodi e i principi indicati da Liturgiam authenticam, ma secondo le fantasie, le ideologie e le espressioni culturali suscettibili di essere, dicono, comprese e accettate dal popolo. Ma il popolo desidera essere iniziato al linguaggio sacro di Dio. Il Vangelo e la Rivelazione, anch'essi, sono “reinterpretati”, “contestualizzati” e adattati alla cultura occidentale decadente. (…) Molti rifiutano di guardare in faccia all'opera di autodistruzione della Chiesa con le sue stesse mani, attraverso la demolizione pianificata dei suoi fondamenti dottrinali, liturgici, morali e pastorali».

IL FUTURO DI SUMMORUM PONTIFICUM

Al termine del suo lungo e articolato messaggio il prefetto del Culto divino ha indicato quella che «da lungo tempo» è una convinzione che lo abita. «La liturgia romana riconciliata nelle sue due forme, che è essa stessa frutto di uno sviluppo, (…), può lanciare il processo decisivo del “movimento liturgico” che tanti sacerdoti e fedeli attendono da tempo. Da dove cominciare? Io mi permetto di proporre tre piste che ho riassumo in queste tre lettere: SAF, silenzio, adorazione, formazione. (…) Il silenzio, senza il quale non possiamo incontrare Dio, (…) l'adorazione (…) e la formazione liturgica a partire da un annuncio della fede o catechesi avente come riferimento il Catechismo della Chiesa Cattolica, ciò che ci protegge da eventuali elucubrazioni più o meno convincenti di alcuni teologi ammalati di “novità”. (…) Io vi chiedo di applicare Summorum pontificum con grande cura; non come una misura negativa e retrograda, rivolta al passato, o come qualcosa che costruisce dei muri e crea dei ghetti, ma come un importante e vero contributo all'attualità e al futuro della vita liturgica della Chiesa».

di Lorenzo Bertocchi 02-04-2017 per http://www.lanuovabq.it/it/articoli-scismi-sacrilegi-e-poca-fede-scuotono-la-messasarahrimette-al-centro-la-questione-liturgica-19425.htm#.WOEOlDtjc6g.facebook

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Dilaga l’omoeresia?

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 Manifesti, convegni e pastorale: dilaga l'omoeresia

 L’appuntamento è per i primi di aprile. Hanno scelto una località, Albano laziale, che da qualche tempo dà ospitalità ad altre sigle, come il Forum dei cristiani Lgbt. Si chiamano Cammini di Speranza e sono decisi a tutto. Anche a studiare come contrastare la propaganda contro gli omosessuali e i transessuali da parte dei movimenti cristiani fondamentalisti. E pazienza se quella che loro chiamano propaganda è nient’altro che la dottrina di sempre della Chiesa sull’omosessualità.

Ma Cammini di Speranza è ormai più di un’avanguardia. Gode dell’appoggio di alcuni sacerdoti e vescovi e l’obiettivo del loro primo congresso è appunto quello di studiare strategie per farsi accettare nella Chiesa. Che non è, si badi, la richiesta di un approccio umano rispettoso della tendenza omosessuale, per il quale la Chiesa offre da tempo un adeguato cammino di verità e purificazione nell’ottica del sacrificio e della castità, come dimostra l’esperienza di Courage, ma un’accettazione tout court della pratica omosessuale. Con annessi e connessi.

Lo si evince dagli workshop proposti nel corso della due giorni di Albano: Cammini di Speranza per i giovani LGBT cristiani: quali proposte? ; Quale supporto spirituale chiedere alle chiese cristiane per le coppie di gay e lesbiche credenti che intendono celebrare il loro amore?; La propaganda contro omosessuali e transessuali dei movimenti cristiani fondamentalisti: come contrastarla?; Cammini di speranza per le donne cristiane LGBT: quali proposte?; Promuovere il sostegno alle persone LGBT anziane: come?; e infine: portare il punto di vista dei cristiani LGBT nel movimento LGBT italiano: quali strategie adottare?

Quest’ultimo workshop è la spia di un fenomeno strisciante, ma ormai sdoganato: le lobby gay si sono infiltrate a tal punto che anche nella Chiesa si fa lobby per portare le istanze dell’omosessualismo. Torna in mente la nota della Congregazione della Dottrina della fede che scrisse un testo così profetico e così illuminante da diventare oggi il principale bersaglio della Lgbtcrazia dominante anche in ambito cattolico: “Oggi un numero sempre più vasto di persone, anche all'interno della Chiesa, esercitano una fortissima pressione per portarla ad accettare la condizione omosessuale, come se non fosse disordinata, e a legittimare gli atti omosessuali. Quelli che, all'interno della comunità di fede, spingono in questa direzione, hanno sovente stretti legami con coloro che agiscono al di fuori di essa. Ora questi gruppi esterni sono mossi da una visione opposta alla verità sulla persona umana, che ci è stata pienamente rivelata nel mistero di Cristo”. Era il 1986 e nessuno avrebbe immaginato come queste parole sarebbero diventate profetiche e osteggiate. Si è avverato quanto si temeva.

Così come le successive: “Anche all'interno della Chiesa si è formata una tendenza, costituita da gruppi di pressione con diversi nomi e diversa ampiezza, che tenta di accreditarsi quale rappresentante di tutte le persone omosessuali che sono cattoliche. Di fatto i suoi seguaci sono per lo più persone che o ignorano l'insegnamento della Chiesa o cercano in qualche modo di sovvertirlo. Si tenta di raccogliere sotto l'egida del Cattolicesimo persone omosessuali che non hanno alcuna intenzione di abbandonare il loro comportamento omosessuale. Una delle tattiche usate è quella di affermare, con toni di protesta, che qualsiasi critica o riserva nei confronti delle persone omosessuali, delle loro attività e del loro stile di vita, è semplicemente una forma di ingiusta discriminazione”.

Delle serie: Ratzinger, e San Giovanni Paolo II Papa che approvò il testo, avevano già messo in guardia il popolo cattolico, ma si vede che negli anni qualcuno deve essersi distratto perché ovunque si assiste all’esplosione di una pastorale gay friendly tanto innaturale quanto, stando ai documenti magisteriali, di rottura con la stessa fede.

Letta così sembra che la Chiesa abbia sdoganato del tutto la pratica omosessuale, che da comportamento oggettivamente disordinato è diventata una delle tante varianti della sessualità umana. Dunque: basta con le vecchie logiche del passato, basta con la monotonia della famiglia composta da uomo e donna. Per essere moderni e accoglienti bisogna essere arcobaleno e anche nella Chiesa non si fanno eccezioni.

Ma questa deriva non è altro che una delle tante tappe della progressiva attuazione di una vera e propria teologia gay che ha prodotto negli anni un altrettanto invasiva pastorale gay, i cui effetti pratici si ravvisano in episodi che le cronache tendono a rilanciare con grande enfasi. Come il recente caso di don Gianluca Carrega, che celebrò il funerale di un omosessuale unito civilmente ex Cirinnà, chiedendo scusa al “coniuge” per tutte le gravi mancanze della Chiesa nei confronti delle persone omosessuali.

E’ quella che don Dariusz Oko ha ribattezzato Omoeresia, ossia un’eresia sviluppatasi in ambito cattolico di una del tutto inesistente teologia omosessualista tesa a scardinare i principi su cui si fonda la morale cristiana e per certi versi anche l’ecclesiologia. Dall’omoeresia alle prassi pastorali come quella di Albano il passo è breve.

Ma bisogna raccontare come è stato possibile che in pochi anni si sia verificato questo stravolgimento. E’ quello che si incarica di fare il mensile di apologetica Il Timone che nel numero di marzo in uscita in questi giorni ha condotto un’articolata inchiesta sull’omoeresia e la mappa della lobby gay cattolica. Che non è soltanto quella che giornali e tv inquadrano come la presenza di sacerdoti e religiosi omosessuali. L’inchiesta non si occupa di questo, ma di un aspetto più taciuto, ma che ha fatto meglio presa nell’immaginario cattolico: quei preti che negli anni hanno iniziato ad aprire, accogliere, difendere e giustificare non tanto la cura della persona con tendenza omosessuale, disordine di fronte al quale la Chiesa ha parole di carità e di verità da sempre, ma la difesa degli atti e dunque delle relazioni fino alla giustificazione del matrimonio e dell’adozione dei figli, come abbiamo visto nei giorni scorsi con il caso dei due militanti lgbt, guarda caso attivisti e frequentanti Cammini di speranza, che su un bollettino parrocchiale di Roma difendevano quello che in Italia è ancora il reato di utero in affitto.

E’ un viaggio che parte da lontano quello del Timone e che approda sugli scaffali delle librerie cattoliche dove sovente si trovano testi apertamente di difesa ad esempio della spiritualità per i transgender. Ma che inizia con i preti di frontiera come don Ciotti per il quale un vescovo può tranquillamente essere gay o il servita Alberto Maggi, che ancor oggi rilascia interviste in cui dice che “i gay sono perseguitati solo perché amano”.

L’inchiesta documenta come la vera svolta e in un certo senso un mutamento di linguaggio anche nei programmi pastorali ci sia stata nel 2008 quando il Gruppo di Studio sulla bioetica dei Gesuiti, cui si unisce don Aristide Fumagalli professore di Teologia morale nel Seminario arcivescovile di Milano, pubblica sulla rivista Aggiornamenti sociali un Contributo alla discussione. Vi si trovano frasi che utilizzano un linguaggio diverso rispetto ai preti di frontiera. Sono studiatamente ambigue, ambiscono a inserirsi nella fedeltà del Magistero. In realtà sono l’inizio di un percorso “tossico” in smaccato contrasto con la Dottrina.

Come queste: “La persona riferisce di scoprirsi omosessuale senza volerlo e quasi sempre in modo irreversibile. Il compito dell’etica non sta quindi nell’insistere per modificare questa organizzazione psicosessuale, ma nel favorire per quanto possibile la crescita di relazioni più autentiche nelle condizioni date”. 

Da lì in poi il cammino è stato tutto in discesa. Numerosi gruppi hanno trovato ospitalità in diverse diocesi sparse per l’Italia. Si sono organizzati convegni, scritti manifesti, ottenuto l’appoggio di vescovi e cardinali, come il caso del vescovo di Albano Marcello Semeraro e si è ottenuta la compiacente complicità di Avvenire e della Cei, il cui ufficio di Pastorale Famigliare ha ospitato veri e propri militanti della causa Lgbt, in aperta contraddizione con quanto la Chiesa ha insegnato, lo abbiamo visto, in tutti questi anni.

C’è il vescovo Jean Paul Vesco per il quale “se la Chiesa non ha che l’astinenza sessuale da proporre come modello virtuoso agli omosessuali, c’e il forte rischio che la dottrina sia salva ma che le 99 pecorelle del gregge siano abbandonate a se stesse, senza che nessun pastore abbia preso su di sè il loro odore”.  Oppure il piano programmatico di sacerdoti diocesani del torinese come don Danna che auspicava nel 2012: “Dobbiamo aiutare i fedeli a cambiare mentalità rispetto all’omosessualità”, il teologo Giannino Piana (“la condizione omosessuale non è un problema per la fede, semmai un’opportunità di progressiva comprensione dell’essenziale”) e l’onnipresente Enzo Bianchi (“Gesù non dice nulla dell’omosessualità”)

Fino alla specifica teologia che teorizza anche il gender cattolico, alla faccia di tutti i pronunciamenti papali in merito dove si trova persino una ex suora autoproclamatasi teologa gender e prontamente invitata ad Arezzo a parlare agli insegnanti di religione.

Per Gianfranco Amato, intervistato nel corso dell’inchiesta “c’è un settore interamente fuori controllo nella Chiesa che contraddice le parole di tutti i Papi”; parole condivise da un altro esperto di tematiche gender come Renzo Puccetti, il quale fa notare come la Chiesa anche sulla questione omosessualista abbia una sorta di sindrome di Stoccolma e cerchi di adattarsi al mondo e non viceversa.

Un adattamento che alla fine però produce un implicito attacco non solo alla famiglia naturale, ma alla stessa evidenza di Creazione così come rivelata da Dio all’uomo. 

 

di Andrea Zambrano 03-03-2017
http://www.lanuovabq.it/it/articoli-manifesti-convegni-e-pastorale-dilaga-l-omoeresiala-lobby-cattogay-si-e-imposta-contro-il-magistero-19120.htm

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Vaticano: sì al controllo delle nascite?

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 La Pontificia Accademia delle Scienze si vende per un piatto di lenticchie?

  PARLA IL PROF. PAKALUK (CATHOLIC UNIVERSITY OF AMERICA) – Ecocatastrofisti e abortisti
riuniti in Vaticano. “ È una cosa senza senso”
 
Roma.
È iniziata ieri presso la Casina Pio IV, nel cuore dei Giardini vaticani, la conferenza dal titolo ambizioso: “Come salvare il mondo naturale da cui dipendiamo”. A organizzare il tutto è la Pontificia accademia delle Scienze, guidata dal vescovo argentino Marcelo Sánchez Sorondo.
 
Tra gli invitati spiccano Paul R. Ehrlich e John Bongaarts, chiamati a intervenire sul tema della sovrappopolazione, che pure non avrebbe molto a che fare con la questione cardine del convegno.
 
L’ambientalista, biologo ed entomologo Ehrlich è passato alle cronache per aver pubblicato, nel 1968, The Population Bomb, testo sacro per i cultori dell’ecocatastrofismo moderno in cui si legge che l’essere umano è un pericolo per il pianeta e la natura universalmente intesa. Bongaarts è il vicepresidente del Population Council, lobby parascientifica che sostiene da sessant’anni la necessità di contenere le nascite per porre un argine all’aumento della popolazione terrestre.
Teorie che poco hanno a che vedere con i principi cristiani, ma che agli organizzatori del workshop sembrano interessare. E pazienza se le tesi di Ehrlich siano state sconfessate dalla storia – negli anni ruggenti, il professore di Stanford teorizzava il ricorso ai programmi di sterilizzazione e aborto forzati – a cominciare da quella che profetizzava milioni di morti ogni anno negli Stati Uniti per fame.

“È difficile trovare una ratio in questi inviti”, dice al Foglio Michael Pakaluk, docente di Etica alla Catholic University of America, autore di un articolo sul magazine First Things in cui smonta paragrafo per paragrafo le teorie economiche di Ehrlich e Partha Dasgupta, economista a Cambridge e altro illustre ospite al seminario vaticano. “Si guardi il curriculum vitae di Bongaarts, per esempio: non ha mai scritto niente riguardo all’estinzione delle specie. Non c’entrano nulla con questa conferenza. E poi il lavoro scientifico di Ehrlich e Dasgupta è molto debole. Forse – aggiunge – questi inviti sono il frutto di un’idea sbagliata riguardo all’autonomia della scienza. Le persone che affermano la loro autonomia non si domandano se le loro azioni sono giustificabili. Semplicemente fanno ciò che vogliono”.

Pakaluk parla di grave scandalo: “La Pontificia accademia, concedendo spazio a questi uomini, porta gli altri a credere che non c’è nulla di sbagliato in ciò che queste persone promuovono”.

Ehrlich, poi, “non solo è un allarmista squilibrato le cui tesi sono state sconfessate anche dal New York Times, ma è uno che ha ripetutamente e violentemente attaccato la chiesa, paragonando il Papa a un terrorista“.
Le sue tesi, scriveva qualche settimana fa sempre il prof. Pakaluk, sono il contrario dell’insegnamento della chiesa. Due anni fa, ricorda il docente della Catholic University of America, Ehrlich scriveva che “quando tu metti al bando l’aborto, tu uccidi una donna. Gli immorali vescovi cattolici dovrebbero tenerne conto, visto che il loro gregge ha clamorosamente rifiutato le loro patriarcali e sessiste idee medievali nonché le loro ridicole opinioni sulla sessualità umana”.
 
Con queste premesse, “non è che ci possa essere tanto dialogo”, commenta il nostro interlocutore, rispondendo alla domanda se a un seminario del genere non sia giusto dar voce anche ai non allineati. “Guardando il programma del seminario, quali sarebbero i loro critici? Ehrlich e Bongaarts hanno milioni di dollari di finanziamenti e spazi illimitati per promuovere la loro agenda. Ma i poveri cattolici nell’Africa subsahariana che resistono loro non hanno alcuna voce“.
Il riferimento, qui, è a Bongaarts, teorizzatore della distribuzione di preservativi nei paesi africani per far fronte al sovrappopolamento di quelle aree e dunque cultore di quel “colonialismo ideologico” contro cui si scaglia assai spesso il Papa. Anche nell’enciclica Laudato Si’.
“Prima di iniziare il mio studio dell’articolo a quattro mani firmato nel 2013 da Dasgupta ed Ehrlich – ha scritto Pakaluk su First Things – ero tentato di descrivere le pontificie accademie come ‘sale che ha perso il suo sapore’ – il riferimento evangelico è chiaro, ndr -, visto che ci sono dozzine di conferenze sull’ambiente a Harvard e Stanford. Ma ora, dopo aver studiato il lavoro più rilevante di Ehrlich, preferisco dire che le pontificie accademie hanno barattato la loro ragion d’essere per un piatto di lenticchie“.
 
di Matteo Matzuzzi
Fonte: Il Foglio, edizione cartacea 6 marzo 2017

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La santa quarantena

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 La santa quarantena: invito alla ragionevolezza e al buon senso

 Il tempo di Quaresima è sempre stato considerato dalla cristianità di tutti i tempi una sorta di grande ritiro fatto da tutti i figli della Chiesa che, con quaranta giorni di raccoglimento e di penitenza, si preparavano alla grande festa della Pasqua. Era il mezzo più potente che la Chiesa da sempre prescriveva ai suoi figli per richiamarli dalle effimere attrattive del mondo e per ravvivare in essi la fedeltà al loro unico Signore.

Infatti – scrive Dom Guéranger – «Che cosa siamo quaggiù? Degli esiliati, degli esseri in catene, in preda a tutti i pericoli che Babilonia ci nasconde. Orbene, se amiamo la Patria, se desideriamo rivederla, dobbiamo romperla con le false lusinghe di questo perfido straniero e respingere lungi da noi quella tazza, alla quale s’inebria una gran parte dei nostri fratelli di cattività. Essa c’invita ai trastulli ed ai piaceri; ma le nostre arpe devono rimaner sospese ai salici presso le rive del suo fiume, fino a quando ci sarà dato il segnale di rientrare in Gerusalemme. Vorrebbe impedirci di riascoltare i canti di Sion entro le sue mura, come se il nostro cuore potesse star contento lontano dalla Patria, mentre un esilio eterno sarebbe la pena della nostra infedeltà».

Per sottrarre i cristiani agli allettamenti del mondo, nella società cristiana d’un tempo, durante la Santa Quarantena, si sospendevano le attività nei tribunali e le guerre; erano proibite le nozze e gli sposi erano esortati a vivere in continenza. Tutti i cristiani, riuniti come in una grande milizia, combattevano insieme i loro tre grandi nemici, il mondo, la carne e il demonio, con le tre armi che la Santa Chiesa raccomandava loro in questo santo tempo: la preghiera, il digiuno, l’elemosina.

La Chiesa – scrive dom Guéranger – vedeva in loro «un immenso esercito, che combatte giorno e notte contro il nemico di Dio». Per questa ragione «il Mercoledì della Ceneri essa nella Liturgia chiamava la Quaresima la carriera della milizia cristiana». Si trattava di uno spettacolo che il Cielo e la terra guardavano ammirati, e l’inferno gemeva. Tutti i cristiani, come un esercito spiegato in battaglia, si ritiravano nel deserto della Quaresima per pregare e digiunare col loro Signore, sospendendo, oltre alle guerre e alle attività dei tribunali, anche la caccia. Solo gli annali della storia possono testimoniare quanto sangue è stato risparmiato durante le guerre, grazie alla sospensione delle attività belliche per via della Quaresima. Il digiuno e l’astinenza erano rigorosissimi.

I cristiani rinunciavano a cibarsi di carne e talvolta anche di latticini. Le dispense erano concesse con molta discrezione tanto che, solo per portare uno dei tanti esempi, quando nel 1297 il re Venceslao di Boemia, caduto ammalato, non poteva sostenere i rigori del digiuno quaresimale, si appellò al papa Bonifacio VIII per ottenere la dispensa di mangiare carne. Il Papa incaricò allora due Abati di accertarsi dello stato reale di salute del Re e, ottenutane favorevole sentenza, concesse la dispensa, ma alle seguenti condizioni: che i venerdì, i sabati e la vigilia di S. Mattia rimanessero esclusi dalla dispensa e che il Re prendesse cibo privatamente e con sobrietà. Tale era il rigore e la serietà con cui si dispensava da un obbligo che era considerato tra i più sacri che avesse il Cristianesimo.

La Quaresima si apriva con l’imposizione delle Ceneri che venivano poste sul capo dei fedeli con le parole: «Ricordati, o uomo, che sei polvere e che in polvere ritornerai». Sono queste le vestigia di una più antica cerimonia durante la quale i pubblici peccatori dovevano sottostare ad una pubblica penitenza. Il Mercoledì delle Ceneri il Vescovo benediceva i cilici che essi avrebbero dovuto portare durante la santa Quaresima. Poi, mentre tutti cantavano i Salmi penitenziali, i penitenti venivano espulsi dal luogo santo a causa del loro peccato, come Adamo dal Paradiso terrestre. Essi non deponevano gli abiti della penitenza e non rientravano in chiesa se non il Giovedì santo, dopo aver ottenuto il perdono con la penitenza quaresimale, la confessione e l’assoluzione sacramentale.

Questa funzione venne poi generalizzata e, nel 1091, papa Urbano II prescrisse che le Ceneri fossero imposte anche ai semplici fedeli, poiché tutti abbiamo peccato. «L’osservanza della Quaresima – ammonì solennemente papa Benedetto XIV – è il vincolo della nostra milizia: per mezzo di questa distinguiamo i nemici della Croce di Gesù Cristo, per mezzo suo allontaniamo dal nostro capo i castighi della collera di Dio; con essa protetti dal celeste soccorso durante il giorno, ci fortifichiamo contro lo spirito delle tenebre. Se questa osservanza viene a rilassarsi, è a tutto detrimento della gloria di Dio, a disdoro della religione cattolica, a pericolo delle anime cristiane; e senza alcun dubbio questa negligenza diviene fonte di disgrazie per i popoli, di disastri nei pubblici affari e di infortuni per quelli privati».

Tutta la liturgia Quaresimale della Chiesa era un invito alla penitenza col duplice scopo di emendare la propria vita e scongiurare i castighi di Dio causati dalle nostre colpe. Nella Colletta del Giovedì dopo le Ceneri, ad esempio, la Chiesa così fa pregare i suoi figli: «O Dio, che dalla colpa siete offeso e dalla penitenza placato, riguardate propizio le preghiere del popolo che Vi supplica ed allontanate da noi i flagelli della Vostra collera meritati dai nostri peccati». È dunque la Chiesa stessa che con la sua sacra Liturgia sconfessa, uno per uno, quei cristiani e quegli uomini di Chiesa che negano l’esistenza dei castighi di Dio e la punizione che essi attirano sull’umanità impenitente. 

Ora, che l’osservanza quaresimale si sia rilassata fino quasi a scomparire e che le conseguenze siano state disastrose per la cristianità non v’è chi possa negarlo. Già nel lontano 1966, con la Costituzione apostolica che porta l’ironico titolo di Paenitemini, Paolo VI riformò in modo drastico e radicale tutta la disciplina penitenziale della Chiesa, demandando sconfinati poteri di dispensa alle Conferenze Episcopali, ai Superiori degli Ordini religiosi e ai parroci. Perso sciaguratamente il senso del peccato, per logica conseguenza si è smarrito il senso dell’espiazione, e dunque della penitenza. Ma l’uomo che non controlla i suoi sensi con l’ascesi cristiana è inevitabilmente vittima delle sue passioni, quantunque avvolte nel manto di una non ben definita misericordia.

Che dell’antica e sana disciplina della Quaresima non sia rimasto neppure un lontano vestigio lo prova il fatto che, nel 2010, il compianto Card. Biffi, per esortare i fedeli alla penitenza quaresimale, non poté che appellarsi alla ragione e al buon senso. Nell’omelia del Mercoledì delle Ceneri, disse con la sua immancabile ironia: « L’umanità in molte circostanze sembra affetta da schizofrenia: cerca il proprio bene, e di fatto corre verso il proprio male; esalta l’uomo a parole, e lo avvilisce nei fatti: lo esalta fin quasi a difenderlo dall’amore del suo Creatore e a sottrarlo all’influenza di Dio, che pur vuol solo il suo bene; e lo avvilisce, lasciandolo in balìa dell’egoismo umano, che invece arriva a manipolare e a uccidere. Moltiplica i mezzi che in se stessi non dànno motivo e significato all’esistere e all’agire, e trascura di guardare ai fini e ai traguardi di tutto il suo agitarsi».

La perdita dei valori cristiani – aggiungeva – prima ancora che un peccato contro la religione è un peccato contro la ragione e il buon senso. Ed ecco allora che la Chiesa «ci propone con la Quaresima una cura di ragionevolezza». Molto acutamente, qualche decennio prima, Gilbert K. Chesterton aveva già notato che «il mondo moderno ha subito un tracollo mentale, molto più consistente del tracollo morale». Occorre assolutamente recuperare il retto uso della ragione e a questo fine, osservava il Card. Biffi, «la misericordia del Signore ci pone davanti l’antidoto della mortificazione liberamente decisa e attuata, l’antica ricetta della penitenza, divenuta di grande attualità. Ritrovare la strada della rinuncia (…) vuol dire incamminarsi verso la guarigione».

Ancora il grande Principe del paradosso, G. K. Chesterton, aveva detto che «l’uomo moderno non vuol più accettare la dottrina cattolica secondo cui la vita umana è una battaglia; vuole solo sentirsi dire che è una vittoria». Ma nessun uomo si è mai illuso di poter vincere senza prima combattere. E il cristiano, che non abbia smarrito l’uso di ragione e un po’ di buon senso, deve ricordare che appartiene ad una Chiesa “militante” e che il combattimento per tale Madre è il più grande vanto dei suoi veri figli.

(Cristiana de Magistris per http://www.corrispondenzaromana.it/la-santa-quarantena-invito-alla-ragionevolezza-e-al-buon-senso/ )

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Grygiel: Pastori o utili idioti?

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 Non c’è nessuna continuità tra le idee di Giovanni Paolo II e la confusione attuale. 
In tanti pastori, oggi regna la diplomazia politicante anziché la pastorale evangelica.
Chi vive secondo la logica della verità, del Padre e delle differenze, è criticato, ridicolizzato, minacciato.

di Stanislaw Grygiel – Il Foglio del 25 Ottobre 2016

Al ricordo di quel memorabile 22 ottobre di trentotto anni fa, mi sento oppresso più che altre volte dalle tenebre che coprono l’Europa e il popolo di Dio. I “padroni” dell’Unione europea odiano l’Europa e la demoliscono. Fanno di tutto per sigillare le sorgenti dalle quali l’Europa scaturisce. Non arrivano a comprendere che essere europeo significa qualcos’altro dall’essere suddito del loro potere. Credono che l’europeo debba sapersi sottomettere ai loro calcoli che trasformano le cose e anche gli uomini in oggetti da vendere e da comprare. Separano la libertà dalla verità, la fratellanza dal Padre e l’uguaglianza da qualsiasi differenza. Per loro ogni uomo deve essere privo dell’identità di persona, perché solo così potrà essere disponibile a fare ciò che gli sarà imposto. Una simile dittatura non tollera che il nichilismo morale e culturale.

Chi vive secondo la logica della verità, del Padre e delle differenze, chi cerca di dare parole adeguate agli uomini e alle cose, è criticato, ridicolizzato, minacciato e talvolta, come il Giusto di Platone, ucciso dagli schiavi incatenati al muro delle opinioni nella caverna. Nelle strade, nelle pagine di giornale di questa caverna in cui siamo gettati, le trombe degli schiavi delle opinioni suonano l’inno della gioia pagana che esalta l’ingenuo affidarsi alla promessa del “serpente”: “Conoscerete il bene e il male” (Gen 3, 5).

Il suono delle trombe della modernità irrompe nei matrimoni e nelle famiglie e, di conseguenza, irrompe anche nella Chiesa che in loro nasce. Distrugge le mura morali dietro le quali le persone impaurite cercano riparo. Persino molti apostoli abbandonano la via crucis o addirittura fuggono da sotto la croce per rifugiarsi nei nascondigli offerti dalla modernità. Il peggio è che alcuni di loro hanno impugnato le trombe e suonano teologicamente lo stesso inno pagano della gioia e della felicità. Come siamo lontani dalle beatitudini del Discorso sulla Montagna (cfr. Mt 5 1 e s.)!

Si sono lasciati degradare a tal punto che non si rendono conto d’avere accettato di funzionare come “utili idioti” che aiutano i padroni della modernità ad appiattire i matrimoni, le famiglie e, quindi, la Chiesa stessa a quota zero, sostenendo spudoratamente che a questa quota abbiamo a che fare con la profondità del mare. Le conseguenze del caos e della confusione da loro prodotti nelle menti e nei cuori di tanti uomini non li lasceranno, esigendo che ne rendano conto davanti al Signore dell’universo e della storia.

Mi viene alla mente la distinzione che Platone fa tra i “semplici operai” (homines fabri) e i costruttori dei ponti (ponti-fices). I “semplici operai” producono oggetti il cui commercio crea tra gli uomini legami calcolati a seconda degli interessi. Invece i ponti-fices aprono gli uomini a ricevere il dono divino, cioè il Ponte che Dio costruisce per scendere verso di loro dall’altra riva del fiume della vita. I “semplici operai” non comprendono che l’amore umano, per essere ciò che dice di essere, cioè amore, deve lasciarsi trasfigurare nell’Amore divino. Perciò non comprendono che donare se stessi a un’altra persona significa donarsi per sempre. Chi toglie se stesso a chi si è donato, commette un furto gravissimo e rischia di prendere la via dell’adulterio.

L’antropologia degli homines fabri è basata non sull’esperienza della ricerca della verità ma sull’esperienza delle cadute e delle malattie morali. Non c’è affatto di che meravigliarsi se la pratica pastorale da loro proposta si oppone alla Parola che è la Verità, la Via e la Vita. Seguono non Cristo ma Mosè, che per la sclerosi del loro cuore (sklerocardia) aveva permesso agli ebrei di abbandonare la propria moglie e prenderne un’altra (cfr. Mt 19, 3-9). E’ una pastorale che io chiamerei diplomazia politicante piuttosto che pastorale evangelica.

Simili pastori giocano a carte truccate con gli uomini e con Dio, poiché non credono più che l’uomo sia chiamato a trascendere se stesso e camminare sul ponte ascendente che Dio ha iniziato a costruire in lui. Non credono che la grazia divina possa rendere l’uomo idoneo a una vita in castità e allora anche nel celibato. Parlano non della fedeltà con-creativa con Dio ma di quella creativa a favore della debolezza umana. Nulla sapendo della salute e non essendo perciò capaci di diagnosticare il male, confondono le malattie con la salute.

Confondono il male con il bene, il falso con il vero. Di conseguenza, invece di avere dei medici abbiamo tanti guaritori che sanno fare molte cose ma ignorano l’unum necessarium. Ubbidiscono ai “conoscitori del bene e del male” che suggeriscono loro le “nuove strategie pastorali” micidiali per la vita spirituale della Chiesa. E’ proprio a questo che mirano i padroni del mondo moderno, stringendo alleanza con gli “utili idioti”.


Alcuni osano dire che sono il pensiero filosofico e l’insegnamento di san Giovanni Paolo II ad avere aperto la porta a ciò che oggi sta accadendo. Vedono una continuità tra le sue idee e la confusione attuale. Sono d’accordo che c’è una continuità nell’insegnamento della Chiesa, ma non dobbiamo identificarlo con il caos provocato dai “semplici operai” ispirati dal postmoderno. Uno di loro, per rafforzare le proprie opinioni in favore del trattamento più liberale dei divorziati, cita il libro “Persona e atto” di Karol Wojtyla e il Colloquio ad esso dedicato (tenuto nel 1970 non a Cracovia, come lui scrive, ma a Lublino – ne sono testimone, poiché vi ho preso parte attiva). Le analisi fatte in questo libro mostrano come l’uomo sia costituito soggetto libero, sovrano, le cui scelte sono atti dell’amore inteso come dono di sé e la cui responsabilità è legata con il suo dovere di esigere da sé anche ciò che da lui non esigono gli altri. C’è sempre il rischio di abusare del pensiero del Santo, quando non gli si è compagni nella salita verso la cima dell’atto della creazione, da dove promana la luce della verità divino-umana della persona umana.

L’oblio del fatto che il pensiero antropologico di Karol Wojtyla è nato nell’esperienza morale dell’uomo, cioè nella comunione con le altre persone e nello stesso tempo nell’esperienza della presenza di Dio in ogni uomo, nella Bibbia e nella Chiesa, permette di manipolare l’eredità di san Giovanni Paolo II, la cui comprensione della persona umana nata nella purezza del cuore e della mente combaciava con la Parola del Dio vivente, Gesù Cristo, e non invece con quella di Mosè. Qui tocchiamo un punto cruciale per la visione wojtyliana del continuo sviluppo della nostra comprensione della salvezza.

Non sarebbe possibile parlare di continuità dell’insegnamento nella Chiesa, se la Chiesa non fosse radicata nella Persona di Cristo presente nel Vangelo e nell’Eucaristia. Senza la continua adorazione di Cristo così presente in mezzo a noi, l’insegnamento nella Chiesa non sarebbe che un Talmud cristiano, cioè una raccolta di studi, di commenti, nei quali il Vangelo si rifletterebbe come il sole nella luna. I riflessi assumono diverse forme e qualità, ma non è la luna a segnare l’avvento dell’aurora.

La Parola in cui Dio crea e salva l’uomo è una sola, ma egli stesso, l’uomo, la sente più volte. Perché? Perché cambiano le situazioni nelle quali l’uomo sente ciò che Dio semel dixit. L’uomo semmai matura, radicando il proprio essere nella profondità infinita della Parola del Dio vivente. La sua maturazione avviene nel continuo ritornare al Principio in cui Dio lo sta pensando creativamente. Essa consiste nel continuo rinascere o, se si vuole, nel convertirsi al Principio, e non nelle riforme.

Proprio per questo non capisco perché certi miei amici hanno paura di pensare dell’uomo e della Chiesa in modo mistico, escatologico e verticale. Si abbassano a fare nella Chiesa la politica che in fin dei conti trasformerà la pastorale in un gioco di statistiche. Ciò non aiuta la Chiesa a dare parole adeguate al matrimonio, alla famiglia, e nemmeno a se stessa.
La rinascita, la conversione dell’uomo e della Chiesa mai sono state l’effetto di decreti scaturiti da commissioni o da discussioni che sono soltanto scambio di parole. Ogni rinascita, ogni conversione avviene nella bellezza propria dello scambio dei doni che sono le persone. I “semplici operai” che cercano di riformare la Chiesa pestano l’acqua nel mortaio. Il carattere sacramentale della Chiesa non è da pestare così.

Aiutare l’uomo moralmente malato a conoscere e a riconoscere la verità del proprio essere costituisce il primordiale amore e la primordiale misericordia che l’uomo può e deve esercitare verso gli altri. Misericordiosi sono quelli che pensano se stessi e gli altri non più secondo una logica orizzontale ma secondo quella verticale. Le fondamenta dell’amore e della misericordia non sono gettate nelle statistiche – queste non conoscono né l’amore né la misericordia che sono per sempre – ma nella verità che, come dice la Veritatis splendor, è sempre e dappertutto, e in ogni situazione è verità. Non dimenticherò mai la risposta data da san Giovanni Paolo II alla domanda: “Se la Bibbia dovesse essere distrutta e Lei avesse la possibilità di salvarne una sola frase, quale sceglierebbe?”, “Sceglierei questa: ‘La verità vi farà liberi’”.

Non so perché, ma mentre compongo questo scritto mi è stato dato di vedere la frase scelta da san Giovanni Paolo II nel suo insieme. Gesù dice infatti: “Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero i miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8, 31-32). Nel senso profondo del termine, solo la fedeltà alla persona ci fa liberi. La fedeltà alle cose ci rende schiavi. Allora la verità desiderata dal cuore umano altro non può essere che Dio disceso e rimasto in mezzo a noi. Albeggia ormai, quando abbandoniamo le opinioni e camminiamo verso di Lui presente nel Vangelo e nell’Eucaristia, intorno alla quale si raduna la Chiesa. L’alba annuncia il sorgere del sole. Nelle tenebre di questa notte la pallida aurora annuncia il sorgere di quel Sole che è “centro dell’universo e della storia” (Redemptor hominis, 1). Eppure tremo. Perché?

 

Stanislaw Grygiel è docente ordinario di Antropologia filosofica al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia di Roma, è stato allievo di Karol Wojtyla all’Università di Lublino, diventandone poi consigliere.

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Mons. Negri: contrapposizione tra dottrina e pastorale, tra verità e carità

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 “Gravi responsabilità dentro e fuori il Vaticano per le dimissioni di Benedetto XVI”. Parla mons. Negri

 "Si avvicina la mia personale “fine del mondo” e la prima domanda che rivolgerò a San Pietro sarà proprio su questa vicenda".

 

 "Benedetto XVI ha subito pressioni enormi", spiega il vescovo che ha iniziato il suo ministero episcopale nella diocesi di San Marino Montefeltro e lo sta concludendo a Ferrara. Con lui "mi sono sentito a casa mia". Il presente della chiesa è segnato da "molta confusione in tanta ecclesiasticità" e gli antipapisti di un tempo sono diventati iperpapisti per proprio uso e consumo. Ma Negri parla anche di famiglia, del rischio che corre la democrazia in Italia per la criminalizzazione delle opinioni non “mainstream”, di Comunione e liberazione e tanto altro.

L’incontro con monsignor Luigi Negri avviene nella sede dell’Arcidiocesi di Ferrara e Comacchio il giorno in cui festeggia i 4 anni dalla sua nomina a vescovo. “Quattro anni bellissimi e faticosissimi” spiega Negri che, raggiunti i 75 anni di età, il prossimo 3 giugno lascerà la guida della diocesi ferrarese a monsignor Gian Carlo Perego.
Una cerimonia che definire sobria sarebbe un’esagerazione: un bicchiere d’acqua, una candelina su un pasticcino salato, due battute con i collaboratori.
Monsignor Negri, una curiosità da profano assoluto: ma un prete può andare in pensione? Se è una missione e non un lavoro, come si fa a dire ad una persona “adesso basta”?
“Non si può dire, e infatti io continuerò a lavorare. Al massimo mi possono dire che non ho più la guida operativa della diocesi di Ferrara e Comacchio che ho accettato con umiltà e spirito di servizio su richiesta di Benedetto XVI. Ma rimango arcivescovo emerito, non decado dalla responsabilità di guidare i cattolici, cosa che farò senz’altro, anche se con altre modalità. Mi dedicherò soprattutto al versante culturale. Cercherò di portare avanti un discorso di sensibilizzazione, in linea con la tradizione cattolica. Tenterò di attuare pienamente questo impegno con grande libertà, confortato da tanti autorevoli amici”.

E’ noto il suo grande rapporto con il papa emerito Benedetto XVI…
“In questi ultimi 4 anni ho incontrato diverse volte Benedetto XVI. E’ stato lui a chiedermi di guidare la diocesi di Ferrara, perché molto preoccupato della situazione in cui versava la diocesi. Con Benedetto è nato un rapporto di forte amicizia. Mi sono sempre rivolto a lui nei momenti più importanti per discutere delle scelte da fare e non mi ha mai negato il suo parere, sempre in spirito di amicizia”.

Visto questo rapporto, si è fatto un’opinione sul perché Benedetto abbia rinunciato al papato, un gesto clamoroso nella millenaria storia della Chiesa?
“Si è trattato di un gesto inaudito. Negli ultimi incontri l’ho visto infragilito fisicamente, ma lucidissimo nel pensiero. Ho poca conoscenza – per fortuna – dei fatti della Curia romana, ma sono certo che un giorno emergeranno gravi responsabilità dentro e fuori il Vaticano. Benedetto XVI ha subito pressioni enormi. Non è un caso che in America, anche sulla base di ciò che è stato pubblicato da Wikileaks, alcuni gruppi di cattolici abbiano chiesto al presidente Trump di aprire una commissione d’inchiesta per indagare se l’amministrazione di Barack Obama abbia esercitato pressioni su Benedetto. Resta per ora un mistero gravissimo, ma sono certo che le responsabilità verranno fuori. Si avvicina la mia personale “fine del mondo” e la prima domanda che rivolgerò a San Pietro sarà proprio su questa vicenda”.

Dopo la “rinuncia” di Benedetto si è assistito ad una svolta nella Chiesa. E’ un dato di fatto che il pontificato di Francesco sia al centro di discussioni. Da una parte, magari storicamente lontana dalla Chiesa, si assiste ad una celebrazione del nuovo papa, da ambienti definiti più tradizionalisti vengono critiche e dubbi…
“La Chiesa deve a Benedetto la straordinaria coniugazione di Fede e Ragione. La Ragione per indagare e la Fede come verifica. Con l’applicazione di questo metodo mi sono sentito a casa mia, in una sorta di ideale continuazione degli anni d’intesa con don Luigi Giussani.
L’attualità vede un grande dibattito e molta confusione in tanta ecclesiasticità, viene il sospetto che non siano chiare le linee di comprensione autentica, perché avvalorate dalla tradizione, dell’intero dogma cristiano. L’ipotesi è quella di far coincidere il cammino della Chiesa con il presente, ma non si considera che, senza tener conto della tradizione, questo tentativo è destinato all’infecondità.
Inoltre è scattata una damnatio memoriae dell’opera immensa dei pontificati di Benedetto XVI e Giovanni Paolo II.
Tra le altre cose è incomprensibile che abbiano trovato accreditamento in Santa Sede personalità equivoche e discutibili. Equivoci perché privi di competenza scientifica. Dalla “Gaudium e Spes” emerge che la Chiesa deve rispettare la libertà e l’autonomia della ricerca tecnica e scientifica (“la legittima autonomia delle realtà terrene”), perché la ricerca, con metodi veramente scientifici e secondo le norme morali, non è in contrasto con la fede. E’ giusta la reazione a queste scelte incomprensibili da parte di tanti ambienti scientifici, che si vedono preferire scienziati meno competenti ed ideologizzati in senso anti cattolico”.

Le cronache forniscono sempre nuovo materiale per la fondamentale questione bioetica. Su questo punto, anche solo dal punto di vista di un osservatore dei media, appare evidente un affievolirsi della voce della Chiesa Cattolica.
“Questo è un aspetto sconcertante. Il ministero non deve essere mai taciuto. Anche in questo caso sembriamo aver dimenticato lo splendore dei pontificati del XX secolo. In quei casi assistevamo ad una pertinenza assoluta nel giudicare, per poi far scaturire, da questo giudizio, la carità.
Adesso assistiamo ad una “vulgata” che mette in dubbio le stesse parole di Dio, c’è una contrapposizione tra dottrina e pastorale, tra verità e carità.
Su questo punto basterebbe la folgorante definizione del Cardinal Cafarra: “La pastorale senza verità è puro arbitrio”.
La Chiesa adesso purtroppo pullula di associazioni e gruppi che danno indicazioni e norme di comportamento su tutte le questioni, senza considerare la verità.
La Chiesa si è sempre battuta per difendere l’umano. Se il mondo distrugge l’umano e io aiuto il Mondo, allora anch’io distruggo l’umano. Purtroppo l’impressione è che persone vicine alla Chiesa aiutino questa distruzione dell’umano”.

Una vicenda che sta dividendo il mondo cattolico è rappresentata dai “dubia” sollevati da quattro cardinali sull’esortazione apostolica Amoris Laetitia di papa Bergoglio. La risposta a questi “dubia” non arriva, a suo giudizio papa Francesco dovrebbe affrontare i problemi posti?
“L’Amoris Laetitia ha bisogno di una specificazione, purtroppo la guida ultima della Chiesa ancora tace. Io penso che il Santo Padre debba rispondere, anche se sembrerebbe aver deciso per il contrario. Purtroppo si è scatenata un’autentica isteria contro questi quattro cardinali che sono stati accusati di tutto. C’è chi è arrivato a suggerire di togliere loro la berretta cardinalizia. Si tratta di episodi stomachevoli. Gli antipapisti di un tempo diventano iperpapisti per proprio uso e consumo”.

Anche Lei nella sua vita non si è mai risparmiato nel dibattito pubblico e spesso ha dovuto subire offese ed insulti.
“Mi sono sempre gloriato, come suggerisce San Paolo, delle offese che ho ricevuto per la difesa della fede e della carità. Sono in gioco questioni più profonde della mia singolare vicenda personale. Un esempio di questo modo di procedere l’ho vissuto proprio a Ferrara quando ho sollevato la questione della “movida” notturna davanti alla cattedrale. Ho posto il tema fondamentale dell’educazione, di cosa si facesse per quei giovani sbandati che rendevano un luogo come il sagrato della cattedrale un postribolo. Per questa mia presa di posizione, che era su un tema fondamentale e ineludibile – la questione educativa -, sono stato attaccato da pseudomoralisti presenti anche nelle istituzioni, ma nessuno ha risposto nel merito del tema che ho sollevato. Sono stato lasciato solo in questa battaglia da tutte le istituzioni, tranne il Prefetto di allora che, guarda caso, fu prontamente sostituito. Sono stato accusato di essere un reazionario, di moralismo, di non conoscere i giovani. Io non conosco i giovani? Come si può dire una cosa del genere? In tutta la mia esperienza nel movimento di Comunione e Liberazione sono sempre stato e sono tuttora a contatto con migliaia di giovani. Il problema è che diventa più facile criminalizzare che misurarsi sui problemi reali, e più facile offendere che discutere con chi pone delle questioni razionali e di buon senso.
Il problema è che dopo 4 anni la situazione non è cambiata, adesso non c’è più la movida notturna davanti alla cattedrale solo perché ci sono i lavori. Il dramma è che nessuno ancora si interroga sul futuro di questi giovani”.

Dalla lettura dei suoi testi, soprattutto quelli relativi alla storia della Chiesa e di quelli di Benedetto XVI emergono molte critiche agli stati moderni, a tratti ho avuto quasi l’impressione di trovarmi di fronte ad un “anarchismo cattolico”.
“Non mi piace l’espressione anarchismo. Nel solco di una solida tradizione ho individuato alcuni problemi. La Chiesa ha sempre ribadito che qualsiasi istituzione non ha diritti sulle questioni religiose. Origene, nel II secolo, affermava a proposito dell’imperatore: “Tu sei una grande cosa sotto il cielo, ma i diritti di Dio sono più grandi dei tuoi”. Quindi c’è sempre stata una chiara posizione della Chiesa su questi temi.
Lo stato moderno e contemporaneo ha messo in atto un tentativo terribile di assolutizzazione della politica e quindi dell’ideologia politica. La Chiesa ha combattuto questa deriva e ha impedito che il totalitarismo trionfasse. Lo stato deve restare nei suoi ambiti.
C’è anche un altro aspetto importante. Come diceva Hannah Arendt la democrazia non è una procedura, ma un costume. Se manca il costume, cioè il dialogo tra le parti, la democrazia può essere violata. Quando vedo che alcune opinioni non vengono neppure prese in considerazione temo per la democrazia. Per paradosso nell’Italia nel 2017, dove le opinioni diverse, non “mainstream”, vengono spesso criminalizzate, la democrazia corre un forte rischio, più grosso che in passato”.

Il tema del “fine vita” è tra i più dibattuti. Si ha talvolta la sensazione che emerga una volontà di negare la sofferenza, come se non dovesse più esistere per l’uomo contemporaneo. Platone, al contrario, nella sua concezione filosofica, affermava che uno dei metodi per arrivare alla conoscenza è proprio la sofferenza. Inutile aggiungere che questo concetto trova il suo apice nel Cristianesimo, nella Passione e nella Croce. Insomma, questo voler cancellare la sofferenza sembra voler negare una possibile via di conoscenza.
“La concezione post illuministica, maggioritaria nel mondo contemporaneo, vede la conoscenza come una “sistemazione di oggetti”, dove tutto è catalogato e spiegabile. La conoscenza autentica è invece l’aprirsi al mistero della vita, è la ricerca del senso di questa vita terrena. La sofferenza è un aspetto fondamentale della comprensione di questa realtà. Ora invece si banalizza la sofferenza, predomina un’antropologia dove la sofferenza non ha posto. Ma la realtà è testarda e rimane, prende il sopravvento tutte le volte che il mistero di Dio lo consente”.

Altre vicende sociali stanno infiammando il dibattito, come quelle relative alla famiglia. E spesso vicende molto complesse vengono risolte da sentenze giuridiche.
“Nel nostro paese è in corso, legittimamente, un dibattito dove sta emergendo un’antropologia che vede la vita come oggetto di una procedura manipolabile, alterabile, dove si avanzano pretese e diritti. Chi si batte contro questa visione propone invece un’antropologia dove la vita è considerata un dono.
C’è solo un luogo dove queste vicende possono essere discusse ed è il parlamento che rappresenta l’espressione della sovranità popolare.
Altri tentativi di risolvere questi problemi, come succede sempre più spesso attraverso la sentenze dei giudici non sono legittimi. La sentenza dei giudici di Trento, che riconosce due padri a figli nati con la procreazione assistita, è vergognosa. I giudici, la magistratura devono applicare ciò che è stabilito dal parlamento. Purtroppo negli ultimi 30 anni abbiamo assistito troppo spesso a delle prese di posizione di parte della magistratura che rappresentano delle lesioni alla democraticità del nostro paese”.

Leggendo e studiando i lavori di molti esponenti della Chiesa definiti come “tradizionalisti”, a volte mi sorprendo a trovare affermazioni che a mio modo di vedere sono rivoluzionarie. Però siete sempre definiti “retrogradi”, perché si applicano etichette spesso fuorvianti?
“C’è una splendida pagina del Manzoni in cui si afferma: “Il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto per paura del senso comune”. E’ la perfetta rappresentazione della nostra epoca. Il senso comune è imposto da efficaci mass media che sono guidati dai grandi potentati economici e politici. Assistiamo a negazioni del buon senso assolute. Viene negata la bellezza dell’amore tra uomo e donna, la capacità di sacrificio, viene negata quella che Benedetto definisce la vita buona e bella. La tradizione deve essere condannata perché nega questo progressismo che non ha fondamento razionale e non è positivo sociologicamente. I paladini di queste prese di posizione non sentono neppure la necessità di giustificare queste affermazioni. Se uno si permette di contestare il senso comune viene accusato di lesa maestà. E il delitto di lesa maestà non è espressione di democrazia. Infatti la nostra democrazia è fragile, sembra spegnersi”.

E cosa si può fare per impedire che questo avvenga?
“La gente che non si sente definita da questo conformismo deve esprimere le proprie convinzioni, sia a livello individuale che collettivo. Poi, ed è questo l’aspetto più importante, deve verificare l’esito delle sue azioni. Questo è un grande insegnamento di Giussani: la verifica”.

Giussani e Cl, una parte fondamentale della sua vita. Lei è stato uno dei protagonisti di questo movimento, adesso non sembra in sintonia con i vertici.
“Cl è un’esperienza straordinaria di fede viva, di incontro reale con Gesù Cristo, che abbiamo amato più di nostro padre e di nostra madre. Giussani ci ha fomentato, ci ha portato ad essere figli della Chiesa e suoi umili servitori. Giussani ci ha insegnato a fare riferimento rigoroso alla tradizione teologica.
Adesso è innegabile che si propongano altre visioni, su cui non c’è stata talvolta coincidenza di vedute, ma mi auguro che la mia maggior libertà e la possibilità di stare sistematicamente a Milano rendano possibile non tanto la ripresa, ma la nascita di un dialogo che spero collaborativo”.

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Vescovi fifoni: Pontificia Accademia della Morte?

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 Sapere che un uomo che nella sua vita e fino alla fine ha fatto tanto male, come Marco Pannella, abbia però goduto dell’amicizia di un sacerdote, è in qualche modo consolante. Si può sperare che quel filo con Dio che non si è mai spezzato possa aver provocato almeno alla fine un ravvedimento, un pentimento, per salvare la sua anima.

 Ma la speranza si fa amarezza sapendo che quel sacerdote è monsignor Vincenzo Paglia, ex vescovo di Terni (diocesi da lui ridotta sull’orlo della bancarotta), disastroso ex presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia, da pochi mesi presidente della Pontificia Accademia per la Vita nonché cancelliere dell’Istituto Giovanni Paolo II per la Famiglia, istituti dove ha iniziato una sistematica opera di demolizione di quanto voluto da san Giovanni Paolo II.

Ma non è da queste “medaglie” che nasce l’amarezza: per capirne il motivo invece basta ascoltare il video che da due giorni rimbalza da un sito all’altro scandalizzando migliaia e migliaia di semplici cattolici. Si tratta dell’intervento che il presidente della Pontificia Accademia per la Vita ha fatto lo scorso 17 febbraio in un evento organizzato dal Partito Radicale per presentare l’autobiografia (postuma) di Marco Pannella (clicca qui per il video).  

Ovvio che chi ha condiviso un’amicizia vera con una persona, anche se proveniente da esperienze diverse e perfino opposte, cerca di valorizzarne l’umano, ma nelle parole di monsignor Paglia non c’è l’affetto dell’amico che ha condiviso un dialogo sincero sulla verità della vita; c’è invece l’entusiastica adesione all’ideologia che ha mosso Pannella e che oggi continua a muovere i suoi seguaci. Un’ideologia figlia e amplificatrice di quella che san Giovanni Paolo II definiva "cultura della morte":

Pannella è direttamente responsabile degli oltre sei milioni di bambini uccisi con l’aborto volontario, è stato uno dei più tenaci distruttori della famiglia, è all’origine delle campagne per l’eutanasia che stanno dando il colpo di grazia al nostro popolo. E poi la droga, la prostituzione, le coppie gay, il controllo delle nascite: tutto ciò che  è il rovesciamento del piano creatore di Dio ha trovato in quest’uomo e nei suoi seguaci dei fanatici missionari dediti al proselitismo.

Un uomo con un fardello così pesante sulla sua coscienza avrebbe avuto bisogno di un uomo di Dio capace di richiamarlo alla sua verità; è stato invece “punito” con un sacerdote che l’ha giustificato ed esaltato nella sua perversione e ora sente anche il bisogno di annunciarlo al mondo: «Marco era un uomo di grande spiritualità», «la sua è una grande perdita per questo nostro paese», «un uomo spirituale che ha combattuto e sperato contro ogni speranza, come dice San Paolo», «una storia per la difesa della dignità di tutti», «ha speso la vita per gli ultimi», «un tesoro prezioso da conservare», «un uomo che sa scendere nella profondità e sa aiutarci a sperare», «ispiratore di una vita più bella per il mondo che ha bisogno di uomini che sappiano parlare come lui».

Non bastasse, ci arriva anche la lezioncina, perché Pannella – dice ammiccante Paglia – «rimproverava noi cattolici perché lasciamo da parte il Vangelo». Ah, sarà per questo allora che si è dato tanto da fare per cancellare ogni traccia di cattolicesimo.

Nessuno più di Pannella in Italia ha lavorato contro la vita e contro la famiglia, e a tesserne le lodi è colui che è presidente della Pontificia Accademia per la Vita ed è stato a capo del Pontificio Consiglio per la Famiglia. Non ci sono parole sufficienti per esprimere lo sdegno e il disgusto per questa esibizione.

Ma, se possibile, non è questa la cosa più grave. Perché l’elogio di Pannella fatto da monsignor Paglia svela anche la prospettiva culturale che muove – con Paglia – una parte influente della Chiesa. Ha detto il monsignore: «Oggi è indispensabile trovare una prossimità che unisce i diversi per edificare una unità di disegno o una unità che abbracci tutti»; e ancora: «Contro i muri, Marco è figura che parla di universalità, libertà per la costruzione», «speranza in un mondo che si ricomponga».

La prosa non è fluida ma il concetto è chiaro: la prospettiva è l’unità del genere umano guardando a ciò che unisce; popoli, culture e religioni che devono fondersi, rinunciando alle proprie identità, per poter diventare una cosa sola. E la Chiesa al servizio di questa utopìa che, peraltro, ha all’Onu i suoi teorici. Non si annuncia più Cristo ma i valori umani comuni; si parla di Gesù ma in funzione di un non meglio chiarito servizio all’umanità; non si lavora per portare tutte le genti a Cristo, ma Cristo è il pretesto per perdersi nel pensiero unico dominante. Insomma, quello che si persegue è la fine della Chiesa.

Riccardo Cascioli, per La Nuova Bussola http://www.lanuovabq.it/it/articoli-pontificiaaccademiadella-morte-19052.htm

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La Milizia dell’Immacolata compie cent’anni

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 Quando santa Bernadette Soubirous, il 25 marzo 1858, giorno della sedicesima apparizione, chiese alla Madonna il suo nome, così come le aveva richiesto il parroco di Lourdes, don Peyramale, Maria Santissima rispose in vernacolo occitano: «Quesoy era ImmaculadaCounceptiou» («Io sono l’Immacolata Concezione»), appellativo di cui Bernadette non conosceva il significato. Il dogma dell’Immacolata Concezione era stato istituito l’8 dicembre di quattro anni prima con la bolla Ineffabilis Deus. L’Immacolata è collegata proprio alle apparizioni di Lourdes (1858), la cui festa liturgica cade l’11 febbraio, e iconograficamente si ricollega con le precedenti apparizioni a santa Catherine Labouré in Rue du Bac a Parigi (1830).

La data dell’8 dicembre, il concepimento, precede di nove mesi esatti la data della festa della nascita di Maria Santissima, 8 settembre, a conferma che la festa e il dogma dell’Immacolata si riferiscono al primo istante di vita della futura Madre di Cristo, appena concepita da sant’Anna e san Gioacchino, così come chiude la Ineffabilis Deus: «(…) dichiariamo, affermiamo e stabiliamo che è stata rivelata da Dio la dottrina che sostiene che la beatissima Vergine Maria, nel primo istante della sua concezione, per una grazia ed un privilegio singolare di Dio onnipotente, in previsione dei meriti di Gesù Cristo Salvatore del genere umano, è stata preservata intatta da ogni macchia del peccato originale; pertanto, questa dottrina dev’essere oggetto di fede certo ed immutabile per tutti i fedeli».

Il dogma, oltre ad affermare che la Vergine è l’unica creatura ad essere nata priva del peccato originale fin dal concepimento, è stata preservata in tutta la sua vita da qualsiasi peccato, mortale o veniale. Dopo 59 anni da quel 1858 in cui Maria Santissima si definì «Sono l’Immacolata Concezione», il frate minore conventuale Padre Massimiliano Kolbe (ZduńskaWola, 8 gennaio 1894 – Auschwitz, 14 agosto 1941) vide i massoni sfilare per le vie di Roma e assistette a manifestazioni in piazza organizzate da anticlericali. A quelle provocazioni sul suolo di San Pietro, Padre Kolbe reagì dando vita, fra gli alunni del Collegio internazionale dei Francescani di via San Teodoro 41/F, alla Militia Immaculatae.

Era il 17 ottobre 1917, mese delle ultime apparizioni della Madonna a Fatima, ma che Padre Kolbe non conosceva affatto. Il fondamento fu la tradizionale devozione che i padri Francescani nutrono verso l’Immacolata Concezione. Le due frasi poste all’inizio del programma della Milizia sono lo scopo del programma stesso: «Ella ti schiaccerà il capo» (Gen 3, 15) e «Tu sola hai distrutto tutte le eresie sul mondo intero» (ufficio della B. V. M.). I membri si consacrano senza limiti all’Immacolata come strumenti nella Sua mano, affinché per mezzo di loro Ella si degni di compiere quello che è espresso in queste due frasi. Già la stessa denominazione, «Milizia», «Cavalleria dell’Immacolata» definisce l’essenza dell’istituzione. La Milizia non si limita alla donazione totale dei suoi aderenti all’Immacolata, ma si adopera per conquistare a Lei anche i cuori degli altri in qualunque tempo, fino alla fine del mondo.

In una conferenza ai frati del convento di Niepokalanòw, fondato nel 1927 a Teresin (42 Km da Varsavia), padre Kolbe esi espresse così: «Forse lo sviluppo di Niepokalanòw consiste nell’allargare e ingrandire le sue mura? No! Nemmeno le nuove case sono indice di progresso. Anche quando in futuro verranno macchine nuovissime e perfette, nemmeno ciò sarà progresso in senso stretto. Anche se il Cavaliere (il periodico «Cavaliere dell’Immacolata» ndr) moltiplicasse per due o tre la sua tiratura, nemmeno allora si avrà lo sviluppo di Niepokalanòw, perché tutte cose esteriori troppo spesso fallaci. E allora, in che consiste lo sviluppo di Niepokalanòw? Da che cosa dipenderà? Niepokalanòw non è soltanto lavoro esterno, fuori o dentro la clausura, ma innanzi tutto le nostre anime. Tutte le altre cose, anche la scienza, sono esteriorità. Nella santificazione delle nostre anime sta il vero progresso di Niepokalanòw. Ogni volta che le nostre anime registreranno maggiore conformità alla volontà dell’Immacolata, sarà un passo avanti che noi faremo nello sviluppo di Niepokalanòw. Perciò, se anche accadesse che ogni attività venisse a mancare, anche se venissero a mancare tutti i membri della M.I., se noi di Niepokalanòw fossimo dispersi come le foglie in autunno, ma nelle nostre anime rimanesse meglio radicato l’ideale della M.I., potremo dire allora audacemente che quello sarà il momento dello sviluppo maggiore di Niepokalanòw» .

Obiettivo della Milizia dell’Immacolata è il fine dell’Immacolata stessa: estendere all’umanità intera i frutti della redenzione operata dal Figlio. L’unico desiderio mariano è quello di innalzare il livello della vita spirituale di ognuno, fino alle vette della santità. Condizione essenziale per ogni apostolo della Milizia è quella di offrirsi in proprietà all’Immacolata. I fedeli cavalieri sono chiamati ad operare in modo particolare 1. nell’educazione della gioventù; 2. nel campo dell’opinione delle masse (media, conferenze, proiezioni…); 3 nelle belle arti (architettura, pittura,scultura, musica, teatro); 4.nello scibile (scienze esatte, storia, letteratura, medicina, diritto…).

Il 2 gennaio 1922 la Milizia ottenne esistenza giuridica nella Chiesa in qualità di «Pia Unione», associazione devota, mediante un decreto del cardinale Basilio Pompilj, Vicario del Santo Padre per la diocesi di Roma, Il 18 dicembre 1926 Pio XI promulgò un Breve con il quale concedeva numerose indulgenze agli iscritti alla Milizia, mentre il 23 aprile 1927 con altro Breve la elevava alla dignità di «Primaria».

Memori della deliberazione della Massoneria,«Noi potremo vincere la religione cattolica non con il ragionamento, ma pervertendo i costumi», quei giovani alunni del Collegio internazionale dei Francescani, capitanati da Padre Kolbe, al quale si sono richiamati i Francescani dell’Immacolata, entrati da alcuni anni nel mirino persecutorio della Santa Sede, si proposero di respingere gli attacchi contro la Chiesa e di aiutare le anime ad affidarsi all’Immacolata con un’opera di conversione e santificazione attraverso il rinnovamento dei costumi, in quanto la rilassatezza proviene dall’infiacchimento della volontà non più sostenuta da sani principi.

E chi è in grado di irrobustire la fiacca e corrotta volontà umana di oggigiorno in balia di molteplici errori e menzogne se non Colei che è Immacolata fin dal primo istante della propria esistenza, Madre della Grazia divina?

(Cristina Siccardi per Corrispondenza Romana http://www.corrispondenzaromana.it/la-milizia-dellimmacolata-compie-centanni/?refresh_cens)

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Gli errori liturgici più comuni

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 Gli errori liturgici più comuni a Messa

 Capitano anche nella vostra parrocchia?

 

Un errore frequente: recitare le preghiere proprie del sacerdote

Ci sono preghiere che sono proprie ed esclusive del sacerdote. Ad esempio “Per Cristo, con Cristo e in Cristo…”, la dossologia con cui il sacerdote chiude l’anafora (parte centrale della Messa). Solo il sacerdote può pronunciarla. Anche se il celebrante invita (dicendo “Tutti insieme!” o cose del genere), i fedeli dovranno rimanere in silenzio, immobili, e rispondere alla fine il solenne “Amen” (cfr. OGMR 151). I laici non devono neanche recitare la preghiera della pace (“Signore Gesù Cristo, che hai detto ai tuoi apostoli ‘Vi lascio la pace, vi do la mia pace’…”). Solo il sacerdote pronuncia questa preghiera.

 

Bisogna distinguere il ruolo del sacerdote e quello del laico a Messa: “Si deve evitare il rischio di oscurare la complementarietà tra l’azione dei chierici e quella dei laici, così da sottoporre il ruolo dei laici a una sorta, come si suol dire, di «clericalizzazione», mentre i ministri sacri assumono indebitamente compiti che sono propri della vita e dell’azione dei fedeli laici” (Redemptionis Sacramentum).


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Comportamento sconveniente dei fedeli

Conversazioni, rumore, danze… niente di tutto questo si adatta bene alla Messa. Ci saranno sicuramente luoghi e circostanze propizi per mostrare la gioia di essere cristiani, ma a Messa vale la “regola d’oro”: non vi si dovrebbe fare quello che non starebbe bene fare sul Calvario.

Ci troviamo di fronte al sacrificio del Figlio di Dio! Sull’altare, Gesù si offre al Padre come vittima, per i nostri peccati. Conversare con il vicino, rispondere al cellulare, battere le mani o eseguire coreografie, danze ecc. non è proprio della Messa.

Abusi commessi dal celebrante

Questa immagine, presa da Internet, è stata scattata durante la Giornata Mondiale della Gioventù di Toronto nel 2002. Se la scena fosse vera, è tutto sbagliato: il sacerdote non veste i paramenti come stabilito (almeno non è presente la casula); il cappello; gli occhiali scuri; l’altare improvvisato (una scatola!). Non c’è niente, insomma, che ricordi neanche da lontano la dignità e la santità del mistero che si celebra!

Grande è la responsabilità «che hanno nella celebrazione eucaristica soprattutto i sacerdoti, ai quali compete di presiederla in persona Christi, assicurando una testimonianza e un servizio di comunione non solo alla comunità che direttamente partecipa alla celebrazione, ma anche alla Chiesa universale, che è sempre chiamata in causa dall’Eucaristia. Occorre purtroppo lamentare che, soprattutto a partire dagli anni della riforma liturgica dopo il Concilio Vaticano II, per un malinteso senso di creatività e di adattamento, non sono mancati abusi, che sono stati motivo di sofferenza per molti»” (R.S., 30).


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A seguito della riforma liturgica, infatti, conviviamo con un certo “protagonismo” del ruolo del ministro.

Il sacerdote stesso si sente in qualche modo spinto a corrispondere alle aspettative dei fedeli di avere “qualcosa sempre nuovo” nelle Messe domenicali. Da ciò derivano le sperimentazioni, gli abusi, le improvvisazioni, una vera Babele liturgica. Bisogna ricordare ancora una volta che la Messa non è il posto giusto per compiere questi esperimenti.

Sono abusi liturgici, ad esempio:

Modificare i testi liturgici

– “Si ponga fine al riprovevole uso con il quale i sacerdoti, i diaconi o anche i fedeli mutano e alterano a proprio arbitrio qua e là i testi della sacra liturgia da essi pronunciati. Così facendo, infatti, rendono instabile la celebrazione della sacra liturgia e non di rado ne alterano il senso autentico” (R.S., 59);

Chiedere che i fedeli accompagnino il sacerdote nella preghiera eucaristica

– “La recita della preghiera eucaristica, che per sua stessa natura è come il culmine dell’intera celebrazione, è propria del sacerdote, in forza della sua ordinazione. È, pertanto, un abuso far sì che alcune parti della preghiera eucaristica siano recitate da un Diacono, da un ministro laico oppure da uno solo o da tutti i fedeli insieme. La preghiera eucaristica deve, dunque, essere interamente recitata dal solo sacerdote” (R.S., 52);

Interrompere il rito della Messa per intercalare preghiere non previste

– aggiungere preghiere di cura o di liberazione a quelle previste dal Messale, suppliche libere dopo la consacrazione, ecc.;

Affidare l’omelia ai laici

– l’omelia può essere soppressa nelle Messe dei giorni feriali, ma è di rigore nei giorni festivi e “di solito è tenuta dallo stesso sacerdote celebrante o da lui affidata a un sacerdote concelebrante, o talvolta, secondo l’opportunità, anche al diacono, mai però a un laico” (R.S., 64). Sono anche pratiche abusive scambiare l’omelia con rappresentazioni teatrali, testimonianze di singoli individui, ecc.;

Approfittare dell’omelia per parlare di temi non collegati alle letture

– “Nel tenere l’omelia si abbia cura di irradiare la luce di Cristo sugli eventi della vita. Ciò però avvenga in modo da non svuotare il senso autentico e genuino della parola di Dio, trattando, per esempio, solo di politica o di argomenti profani o attingendo come da fonte a nozioni provenienti da movimenti pseudo-religiosi diffusi nella nostra epoca” (R.S., 67). Bisogna tenere a mente che “regolamentare la sacra liturgia compete unicamente all’autorità della Chiesa, la quale risiede nella Sede Apostolica e, a norma del diritto, nel Vescovo Sacrae” (R.S., 14). Nessuno ha il diritto di “toccare” la liturgia, anche se mosso dalle migliori intenzioni. Ancora una volta, si raccomanda la lettura dell’Istruzione Redemptionis Sacramentum, da cui abbiamo tratto le citazioni.

“Ministri dell’Eucaristia”

Il ministro dell’Eucaristia è il sacerdote. La Chiesa raccomanda di non chiamare più i laici che aiutano il sacerdote nella distribuzione della Comunione “ministri dell’Eucaristia”, “ministri straordinari dell’Eucaristia”, “ministri speciali dell’Eucaristia” o “ministri speciali della Sacra Comunione”. La definizione raccomandata è “ministri straordinari della Sacra Comunione”.

L’immagine riportata, tratta da Internet, è un ottimo esempio di quello che non va fatto.

Il tempio è piccolo, e quindi anche il numero dei fedeli deve esserlo. I ministri straordinari sarebbero quindi superflui. Se ne ammette la presenza solo quando il numero delle persone che vogliono comunicarsi è talmente elevato che la distribuzione della Comunione ritarderebbe la Messa oltre il ragionevole. In assenza di questa condizione, basta l’accolito per ausiliare il sacerdote nella distribuzione della Comunione.

Vediamo anche il sacerdote consegnare frazioni del pane eucaristico ai laici, il che è espressamente vietato dalle norme liturgiche (cfr. R.S., 73). La frazione del pane, iniziata dopo aver dato la pace e mentre si recita l’“Agnello di Dio”, viene realizzata solo dal sacerdote, aiutato, se è il caso, dal diacono o da un altro sacerdote concelebrante.

Si deve dunque tener sempre presente che i laici possono partecipare alla distribuzione della Comunione ai fedeli solo in modo straordinario, nelle condizioni indicate in precedenza.

I ministri straordinari della Sacra Comunione devono presentarsi al sacerdote dopo che egli si è comunicato, ricevono da lui la Comunione e poi distribuiscono la Comunione ai fedeli nei luoghi indicati dal celebrante. Si devono utilizzare delle patene per evitare la perdita delle particole o di parti di queste. È abusiva la pratica di improvvisare frasi durante la distribuzione della Comunione. Si dice “Il Corpo di Cristo”, e il fedele risponde “Amen”, comunicandosi alla presenza del ministro (ordinario o straordinario).


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I laici incaricati di questo servizio devono ovviamente vestirsi con il massimo decoro. Lo standard di condotta dev’essere la discrezione, evitando qualsiasi esagerazione o segno di protagonismo.

La distribuzione della Comunione

Ci si può comunicare in ginocchio o in piedi. Quando ci si comunica in piedi, si raccomanda, prima di ricevere il sacramento, di fare la dovuta riverenza (R.S., 90). Oltre a questo, il fedele ha sempre il diritto di scegliere se desidera ricevere la Sacra Comunione in bocca o in mano. Il modo tradizionale di comunicarsi è direttamente in bocca. Se si preferisce riceverla in mano, bisogna presentarsi con le mani aperte, sovrapposte, pronte a ricevere la Sacra Comunione. Non è corretto “prendere” la particola come se fosse un oggetto comune. Ricevuta la Comunione, chi si comunica deve consumarla immediatamente, davanti al ministro.

E ancora: “Non è consentito ai fedeli di «prendere da sé e tanto meno passarsi tra loro di mano in mano» la sacra ostia o il sacro calice” (R.S., 94). L’immagine qui a sinistra mostra una condizione flagrante di mancato rispetto nei confronti di questa norma.

Non si deve permettere che la distribuzione della Comunione sia del tipo self-service, di modo che ciascuno prenda l’ostia con le proprie mani e dia a se stesso la Comunione. Quando si distribuisce la Comunione sotto le due specie, questa sarà obbligatoriamente data direttamente in bocca a chi si comunica.

Cosa si può fare in relazione a tutto questo?

Se verificate delle infrazioni a queste regole, potete aiutare, senza mancare alla carità, parlandone con il vostro parroco, e se necessario con il vescovo.

[Traduzione dal portoghese a cura di Roberta Sciamplicotti per http://it.aleteia.org/2016/10/18/errori-liturgici-messa-piu-comuni/]

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