(CCI) Aiutare chi perde il lavoro

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Conferenza Episcopale Italiana
59a ASSEMBLEA GENERALE
Roma, 25-29 maggio 2009
 
PROLUSIONE DEL CARDINALE PRESIDENTE

Venerati e Cari Confratelli,
                                            la solennità dell’Ascensione riempie ancora i nostri occhi e il nostro cuore. E mentre ci prepariamo a celebrare la grande festa della Pentecoste, in calendario per domenica prossima, ci lasciamo avvincere ancora una volta dal mistero della Pasqua, «evento sorprendente che costituisce la chiave di volta del cristianesimo […], cambia la vita e illumina l’intera esistenza delle persone e dei popoli» (Benedetto XVI, Discorso all’Udienza del Mercoledì, 26 marzo 2009).
          Molteplici sono gli incontri che connotano l’attività di un Vescovo. Ma non c’è dubbio che l’assemblea generale è tra i più espressivi, dunque tra i più attesi. E sebbene in questo 2009 sia prevista un’ulteriore convocazione nel mese di novembre, l’odierno appuntamento ci riserva non di meno la fragranza di quel collegialis affectus che è dimensione a suo modo costitutiva del nostro lavorare insieme (cfr Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi, nn. 28 e 31). Conveniamo dalle nostre Chiese per discernere in spirito di vera comunione il momento che ci è dato di vivere e le questioni che interpellano il nostro ministero, non cessando di camminare insieme dietro al Signore Gesù.
          Non ci sfugge la peculiarità della sollecitudine che qui deve esprimersi rispetto al territorio in cui sono piantate le nostre Chiese. Sappiamo bene di doverci insieme far carico delle attese che sono rivolte al Vangelo, così come vi è una responsabilità collegiale che va esercitata nei riguardi di una serie di situazioni che accomunano le nostre diocesi e interrogano il loro futuro. Lo Spirito Santo ci doni di vivere questi giorni nell’intensità della grazia, lieti e docili rispetto ad essa, così che quanto pensiamo e diciamo sia a gloria di Dio, per la vita del nostro popolo e della nostra Nazione.
          1. Salutiamo con cordialità il Nunzio apostolico in Italia, l’Arcivescovo Giuseppe Bertello, che amabilmente è già qui tra noi e la cui parola avremo presto il piacere di ascoltare.
            Un saluto speciale rivolgiamo fin d’ora ai confratelli Vescovi che qui rappresentano numerose Conferenze Episcopali d’Europa: sono i benvenuti e li ringraziamo per questa presenza importante e significativa.
            Avviando i lavori dell’assemblea, vogliamo in primo luogo accogliere i Presuli che sono entrati nell’arco dell’ultimo anno a far parte della nostra Conferenza. Confidiamo nel loro impegno solerte e chiediamo al Signore abbondanza di grazie per il loro ministero.
Essi sono:
– S.E. Mons. Ambrogio Spreafico, Vescovo di Frosinone – Veroli – Ferentino;
– S.E. Mons. Gualtiero Sigismondi, Vescovo di Foligno;
– S.E. Mons. Mauro Parmeggiani, Vescovo di Tivoli;
– S.E. Mons. Karl Golser, Vescovo di Bolzano – Bressanone;
– S.E. Mons. Salvatore Muratore, Vescovo di Nicosia;
– S.E. Mons. Antonio Staglianò, Vescovo di Noto;
– S.E. Mons. Adriano Tessarollo, Vescovo eletto di Chioggia;
– Padre Beda Umberto Paluzzi, Abate ordinario di Montevergine.
           
A questi si aggiunge il gradito ritorno di S.Em. il Card. Agostino Vallini, Vicario di Sua Santità per la diocesi di Roma, in coincidenza con il passaggio fra i Vescovi emeriti di S.Em. il Card. Camillo Ruini, a cui – ancora una volta – vorrei esprimere a nome di tutti i Confratelli il più vivo ringraziamento per quanto ha fatto per la nostra Conferenza Episcopale.
 
Cogliamo l’occasione per ringraziare affettuosamente Sua Ecc. Mons. Giuseppe Betori che nel corso di quest’anno è stato chiamato dal Santo Padre a guidare l’Arcidiocesi di Firenze, lasciando così quel ruolo di Segretario generale della nostra Conferenza che egli aveva svolto con tanto acume e tanta solerzia dal 2001. Il Signore conforti con abbondanti grazie la sua nuova missione. Nel contempo, salutiamo il nuovo Segretario generale, Sua Ecc. Mons. Mariano Crociata, che da mesi ormai va svolgendo il suo incarico, nel quale lo accompagniamo con fiducia ed affetto.
 
Un particolare saluto di riconoscenza ed affettuosa vicinanza vogliamo rivolgere ai Confratelli che hanno lasciato negli ultimi dodici mesi la guida delle rispettive Diocesi e che in modo nuovo continuano ora a lavorare con noi per il bene delle nostre Chiese. Essi sono:
 
– S.E. Mons. Arduino Bertoldo, Vescovo emerito di Foligno;
– S.E. Mons. Giuseppe Costanzo, Arcivescovo emerito di Siracusa;
– S.E. Mons. Angelo Daniel, Vescovo emerito di Chioggia;
– S.E. Mons. Marco Ferrari, Vescovo già ausiliare di Milano;
– S.E. Mons. Roberto Amadei, Vescovo emerito di Bergamo;
– S.E. Mons. Lino Bortolo Belotti, Vescovo già ausiliare di Bergamo;
– S.E. Mons. Cosmo Francesco Ruppi, Arcivescovo emerito di Lecce;
– S.E. Mons. Raffaele Nogaro, Vescovo emerito di Caserta.
 
Riconoscente e affettuosa memoria desideriamo fare dei fratelli Vescovi che hanno di recente terminato la loro esistenza terrena. Domandiamo al Padre ricco di misericordia, che fedelmente hanno servito, di accoglierli nella pienezza della vita, mentre confidiamo nella loro intercessione per noi e il popolo a cui si sono dedicati. Ecco i loro nomi:
 
– S.E. Mons. Angelo Cella, Vescovo emerito di Frosinone – Veroli – Ferentino;
– S.E. Mons. Maurizio Galli, Vescovo emerito di Fidenza;
– S.E. Mons. Franco Sibilla, Vescovo emerito di Asti;
– S.E. Mons. Wilhelm Emil Egger, Vescovo di Bolzano – Bressanone;
– S.E. Mons. Antonio Iannucci, Vescovo emerito di Pescara – Penne;
– S.E. Mons. Santo Bartolomeo Quadri, Arcivescovo emerito di Modena – Nonantola;
– S.E. Mons. Salvatore Boccaccio, Vescovo di Frosinone – Veroli – Ferentino;
– S.E. Mons. Alessandro Maggiolini, Vescovo emerito di Como;
– S.E. Mons. Edoardo Ricci, Vescovo emerito di San Miniato;
– S.E. Mons. Silvio Cesare Bonicelli, Vescovo emerito di Parma.
 
            2. Mai è rituale, nei nostri incontri, il pensiero che rivolgiamo al Papa. Men che meno lo è stavolta, venendo noi da mesi di intensa partecipazione alle tribolazioni che egli inopinatamente s’è trovato ad affrontare per una serie di infelici e prevenute interpretazioni date ad alcuni suoi pronunciamenti. L’ostilità di cui è stato fatto bersaglio ci ha tuttavia riconsegnato la sua figura cresciuta – se possibile – nella considerazione e nell’amore di fedeli e pastori. Resta per noi incomprensibile come l’umiltà e la bontà d’animo, la finezza e la tranquillità interiore che lo contraddistinguono possano da taluno non essere colte per ciò che sono. E se qui sta il segreto della sua popolarità presso la gente comune, ci sembra di dover osservare che quanto più penetrante si fa la sua parola, tanto più egli si trova esposto a reazioni rigide, se non ostili, da parte di taluni ambienti. Ma perché il cristianesimo non svanisca nell’irrilevanza o nella soggezione verso i moderni potentati, Papa Benedetto mantiene esplicita la novità che proviene dal Vangelo, novità che non è anzitutto una morale, ma una fede: «Gesù è risorto – ci ripete – è il Vivente e noi lo possiamo incontrare» (Discorso all’Udienza cit.). Sulla linea del Concilio Vaticano II – «Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in un certo senso ad ogni uomo» (Gaudium et Spes, n. 22) – e sui passi dei suoi predecessori, egli è tutto proteso alla causa dell’uomo, perché nelle esuberanze della tecnica non perda se stesso. Si potrebbe dire che vale per Benedetto XVI ciò che Papa Wojtyla aveva sentenziato nella sua prima enciclica: «Sulla via che conduce da Cristo all’uomo la Chiesa non può essere fermata da nessuno» (Redemptor hominis, n. 13). In questo senso, se profeta è colui che, nelle alterne e complesse vicende della storia, indica Dio e le luci del suo Regno perché l’umanità non perda se stessa, allora davvero non esitiamo a chiamare profetico questo Papa, il suo magistero, la sua paziente e tenace volontà di intessere un dialogo salvifico con il mondo odierno. In un tale percorso la sofferenza è inclusa, anche perché il profeta «non cerca mai di imporre se stesso: il suo messaggio viene verificato e reso fertile nella croce» (J. Ratzinger, Intervista a 30Giorni, n. 1, Gennaio 1999).
           La confidenza affidataci lo scorso Giovedì santo circa l’incontro, alla vigilia della sua ordinazione sacerdotale, con la pagina di Giovanni «Consacrali nella verità, la tua parola è verità» (cfr 17, 17; in Omelia della Messa crismale, 9 aprile 2009), ci suggerisce qualcosa di importante del suo sentirsi consacrato al compito della verità, a qualunque prezzo. Si chiedeva infatti: «La conosciamo davvero questa verità? La amiamo? Ci occupiamo interiormente di questa parola al punto che essa realmente dà un’impronta alla nostra vita e forma il nostro pensiero?» (ib). E sempre a questo riguardo, la Lettera indirizzata ai Vescovi della Chiesa cattolica, quale «parola chiarificatrice» sulle sue intenzioni e sull’operato della Sede Apostolica, è un documento toccante ed esemplare della sua dedizione alla causa della verità, anzi di più, del suo impegno in prima persona nel cercare di risvegliarla nel prossimo, e in tutta la Chiesa. Sorprendendo chiunque, infatti, non ha avuto esitazione a innovare anche la forma di comunicazione, pur di superare gli ostacoli ed arrivare al cuore dei suoi interlocutori: «Chi annuncia Dio come Amore “fino alla fine” deve dare la testimonianza dell’amore» (Lettera ai Vescovi della Chiesa cattolica, 12 marzo 2009). Ecco l’ammissione che conta, collegata alla quale c’è l’affermazione delle priorità del suo pontificato, che ci coinvolgono direttamente: «Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio» (ib). Ebbene, non possiamo – noi Vescovi d’Italia – non cogliere questa occasione per esprimere un corale quanto intenso grazie al Santo Padre per questa Lettera che rimarrà nella storia della Chiesa come un grido di amore e di verità: sappia che gli vogliamo bene e siamo con lui ogni giorno; insieme a lui ripetiamo che quando è in gioco la verità non c’è posto nella comunità cristiana per alcun tipo di divisione, perché solo così il mondo potrà aprirsi alla bellezza della fede.
          Il pellegrinaggio che egli ha compiuto in questo mese di maggio in Terra santa si è rivelato uno degli atti più espressivi del suo pontificato. Solo un Papa così preoccupato dei tentativi di scindere il Gesù della storia dal Cristo della fede, poteva testimoniare una gioia tanto speciale «di vedere, toccare e assaporare, in preghiera e contemplazione, i luoghi benedetti dalla presenza fisica del nostro Salvatore» (Discorso sul Monte Nebo, 9 maggio 2009). Un viaggio che non solo ha mantenuto le sue non facili promesse, ma è stato occasione per rivelare il disegno inderogabilmente religioso che sottostà all’intera azione di Benedetto XVI. Anche nei momenti in cui più cruciale tende a farsi la provocazione politica, egli non si distacca dalla sua visione squisitamente biblica e, anzi, su di essa costruisce le risposte che sono attese sul fronte umanitario come su quello diplomatico, sul fronte interreligioso come su quello ecumenico. Forte solo dell’amicizia verso ciascuna delle parti contrapposte, egli ha ogni volta articolato il suo pensiero sulla comune responsabilità delle grandi religioni monoteiste, schierandosi ripetutamente dalla parte dei più deboli, di coloro che più soffrono per l’inimicizia e le guerre. Nei confronti dell’ebraismo – ha dichiarato – c’è per la Chiesa cattolica «un legame inscindibile» (ib); mentre al mondo islamico ha proposto «un’alleanza di civiltà» basata su un dialogo che fa leva sul concetto di razionalità che è proprio di ogni vera fede religiosa (Discorso ai Capi Religiosi Musulmani, 9 maggio 2009). Se equivoci avevano potuto sorgere all’indomani di Ratisbona o per il grave negazionismo di taluno, questo viaggio ha definitivamente chiarito le posizioni. E ha reso evidenti a tutti l’affetto e il sostegno del Papa verso le esigue minoranze cattoliche che in quella regione sono oggi più che mai tentate dalla fuga.
           3. Lo ringraziamo anche per la visita che egli ha compiuto, il 28 aprile scorso, ai fratelli terremotati dell’Abruzzo. Si è immerso in quel popolo profondamente segnato dalla paura, dal dolore per i propri morti, e dal senso di inesorabile sconfitta che resta in chi, in pochi secondi, perde le cose di una vita e la storia di una famiglia. Non c’è commentatore che non abbia colto la dolcezza del suo approccio, il tratto umanissimo dei suoi incontri, il calore del suo sguardo, il vigore delle sue parole. Una visita che è stata di autentico conforto, così l’ha definita l’arcivescovo dell’Aquila, S.Ecc. Mons. Giuseppe Molinari, che vogliamo ringraziare insieme al suo clero e alle religiose per la prova di abnegazione data alla loro gente e all’Italia intera. Fin dal primo momento della tragedia tutti noi, come singoli e come Conferenza, siamo stati vicini a quelle popolazioni, ai loro preti, al loro Pastore. La solidarietà che subito si è riversata su quella gente, l’accorrere di volontari che, con diverse divise e sotto molteplici sigle, si sono fatti avanti per il primo soccorso e la prima provvisoria sistemazione dei senza tetto, le collette scattate immediatamente insieme a raccolte le più varie, dicono di una mobilitazione che fa onore alla nostra gente. La solidarietà – annotava proprio Benedetto XVI – «è un sentimento altamente civico e cristiano e misura la maturità di una società. Essa in pratica si manifesta nell’opera di soccorso, ma non è solo una efficiente macchina organizzativa: c’è un’anima, c’è una passione, che deriva proprio dalla grande storia civile e cristiana del nostro popolo» (Discorso alla popolazione dell’Aquila, 28 aprile 2009). È l’intrecciarsi di gesti – tra quanti sono rimasti vittime dello scisma, e coloro che sono accorsi – ad aver fatto emergere i tratti di un’Italia per qualcuno insospettabile, forte di una sua dignità intrinseca, di una compostezza ed una fierezza nella sventura che si potevano pensare smarrite. Anche osservatori laici vi hanno letto le tracce di una religiosità radicata che emerge nelle situazioni più critiche. Sotto i colpi della tragedia, il nostro Paese viene fuori per quello che è il suo volto vero, la sua storia profonda, il suo deposito di valori, i suoi riferimenti più tenaci, che animano dal di dentro la modernità stessa.
            Per la gente terremotata, per questi nostri amati fratelli, il difficile però è ancora in agguato. È quando passa l’emergenza e subentra l’apparente normalità, infatti, che i colpi più duri si fanno sentire. Per questo non possiamo allentare e non allenteremo la nostra vicinanza. La Caritas che con prontezza si è messa in moto dislocando le sue risorse, si sta ora organizzando per un’assistenza prolungata che mobiliterà persone ed esperienze, secondo una partecipazione territoriale che assicura da una parte un aiuto capillare e dall’altra sempre ulteriori coinvolgimenti. Per questa sua attività, e per l’aiuto concreto che desideriamo mettere nelle mani dell’Arcivescovo dell’Aquila, si sta impiegando il raccolto della colletta effettuata nelle parrocchie, oltre al fondo di cinque milioni immediatamente stanziato dalla nostra Conferenza. Ma non possiamo non incoraggiare tutte le iniziative che, sul modello dei gemellaggi, si vanno adottando per rendere sistematici gli aiuti ed indirizzare le offerte dei cittadini verso obiettivi precisi. Sappiamo poi che in questi casi è importante che l’opinione pubblica resti attenta e vigile: la ricostruzione dovrà essere sollecita, senza intoppi e senza sprechi. La politica, che con generale apprezzamento si è subito attivata attraverso le iniziative di prima emergenza, dovrà ora curare che per l’inizio dell’autunno tutte le famiglie abbiano una sistemazione adeguata. Nello stesso tempo dovrà assicurare l’avvio di quei piani di ricostruzione che solo se contingentati negli obiettivi e nei tempi daranno alle comunità sotto sforzo il senso di una progressiva uscita dall’emergenza. I territori colpiti, com’è noto, hanno alle spalle una cultura secolare che, nelle diverse epoche, ha prodotto testimonianze d’arte e di fede di incalcolabile valore. Si valuta che siano circa tremila i monumenti da recuperare: tra questi – ci permettiamo di dire – urgono maggiormente le chiese, e non solo per il loro singolare carico di storia e di arte, ma perché va data una risposta alle esigenze di culto della popolazione. In tal senso si sono già pronunciati i confratelli Vescovi dell’Abruzzo-Molise e noi uniamo la nostra voce alla loro: oltre la nota devastazione de L’Aquila, essi hanno segnalato anche altri territori colpiti con rilevanti danni per case e edifici di culto: Sulmona-Valva, Teramo-Atri, Avezzano, Pescara-Penne, Chieti-Vasto. Se lo scrittore ha visto nelle croci sommerse dai calcinacci il simbolo di una fede ferita, quasi tramortita, noi – a nostra volta – non possiamo non sospingere oltre lo sguardo: nella premura ardimentosa con cui sono stati sottratti dalle macerie statue e crocifissi venerati da secoli, scorgiamo il segno di una risurrezione già in atto, per la quale ogni solidarietà, anche dall’estero, è benedetta. Le generazioni passate hanno visto nelle chiese e nelle basiliche che si andavano costruendo l’affermazione della loro soggettività e del loro genio. Allo stesso modo, nelle energie e nel coraggio investiti senza risparmio per il pieno e funzionale recupero di tali manufatti, la presente generazione scorgerà un traguardo degno di non minore ammirazione.
            4. Il terremoto, che è tornato a colpire duramente l’Italia, ha colto il nostro Paese in una condizione sociale ed economica duramente provata dalla crisi che, iniziata l’estate scorsa negli Stati Uniti, si è rapidamente diffusa in tutto il mondo. Nei mesi scorsi non sono mancate le occasioni per esprimere, come Chiesa cattolica, le considerazioni che questo contesto suggerisce. Osserviamo oggi che c’è una comprensibile ansia volta a scrutare, e dunque quasi anticipare, i segni di uscita dal tunnel in cui ci troviamo. E per la verità non mancano le voci che si arrischiano in previsioni quasi rasserenanti, che tutti naturalmente vorrebbero vedere confermate. Eppure, questo pare a noi il momento in cui la crisi tocca in modo più diretto, quasi cruento, la realtà ordinaria delle famiglie per le quali torniamo ad auspicare un fisco più equo. La disoccupazione, in particolare, sta intaccando anche le zone a più radicata tradizione industriale. Contraendosi gli ordinativi e le commesse, dalle imprese viene azionata la leva occupazionale, talora in tempi e modi alquanto sbrigativi, come si trattasse di alleggerire la nave di futile zavorra. Invece, proprio il patrimonio di conoscenze e di esperienza garantito dalle persone che lavorano sarà la base realistica da cui ripartire, una volta passato il peggio. Intanto, a patire le maggiori ripercussioni è la fascia dei precari. È noto come nell’ultimo decennio i posti di lavoro flessibili avessero fornito un apporto decisivo alla riduzione della disoccupazione, che ora registra un brusco aumento dovuto principalmente alla perdita di posti di lavoro non garantiti. Per questi lavoratori gli ammortizzatori previsti sono davvero modesti. Ma l’incertezza ha da tempo attecchito anche nell’area del lavoro stabilizzato, che sta infatti conoscendo l’inquietudine della cassa integrazione, quando non del licenziamento. Riferendosi a questi fenomeni, Benedetto XVI in visita domenica scorsa a Montecassino invitava «i responsabili della cosa pubblica, gli imprenditori e quanti ne hanno la possibilità a ricercare, con il contributo di tutti, valide soluzioni alla crisi occupazionale, creando nuovi posti di lavoro a salvaguardia delle famiglie» (Omelia in Piazza Miranda a Cassino, 24 maggio 2009). Si tratta di situazioni infatti che appesantiscono molto il tessuto sociale, allargando le disuguaglianze e riducendo la serenità di non poche comunità. La crisi, in altre parole, sta ora producendo i suoi effetti più deleteri sull’anello più debole della nostra popolazione. Come pure sull’economia già precaria dei Sud del mondo, in cui è previsto un aumento di quasi cento milioni di nuovi poveri.
          Le strategie fin qui approntate hanno avuto come protagonisti per lo più i governi nazionali, e già questo dice la precarietà e l’incompiutezza di una globalizzazione che, almeno stando al volto finora dato di sé, ambiva a porsi come il destino maturo del mondo. Ma le iniziative indispensabili per rivedere i meccanismi di governo globale dell’economia per ora languono, auguriamoci non per la segreta illusione di riprendere presto le vecchie abitudini. Il sistema in realtà ha perso di credibilità e di efficacia. Per questo il Papa ha più volte ripetuto l’invito a mettersi all’opera per riformulare questi meccanismi, mettendoli al riparo dagli egoismi e garantendo pari opportunità per tutti i Paesi. «È una tragedia vergognosa – ha di recente commentato – che un quinto dell’umanità soffra ancora la fame» (Discorso alla Plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze sociali, 4 maggio 2009). C’è bisogno a questo punto, infatti, di incarnare sui vari fronti una speranza che non si riduca all’attesa degli eventi, superando la logica del fatalismo e una ricorrente depressione psicologica e morale. Se ogni nazione, ogni categoria, ogni famiglia si sintonizzeranno sull’idea che la crisi è anche un’opportunità concreta per cambiare in meglio e in modo più stabile gli equilibri del vivere comune e gli stili personali – anche all’insegna di una ritrovata, maggiore sobrietà – allora questo tempo e le sue asperità non si saranno presentate invano.
          5. In questo scenario potrebbe risultare importante, per le nostre Chiese, sperimentare una prossimità ancora più concreta al mondo del lavoro. Intendo riferirmi alla vicinanza che i sacerdoti possono esprimere, ad esempio, accostando anche regolarmente le persone là dove esse lavorano – cappellani del mondo del lavoro, appunto – testimoniando, anzitutto attraverso un’attitudine all’ascolto, la considerazione che il Dio di Gesù Cristo ha del lavoro umano. L’unicità dell’uomo nell’universo, e la sua superiorità rispetto alle varie creature, sono espresse dal lavoro che soggioga la terra rispettandola. Voglio dire che, dalla crisi in corso e dalle minacce che tanto ci angosciano, dobbiamo uscire non con una svalutazione del lavoro, identificato come circostanza casuale e fortuita, ma con la riscoperta del legame imprescindibile dell’uomo con il lavoro. Passa per questa strada quell’«umanizzare il mondo lavorativo» che ancora ieri il Papa invocava a Montecassino (cfr. Omelia cit.). Ed è la ragione che rende improponibile una concezione meramente mercantile del lavoro umano, quasi fosse una qualunque merce di scambio sottoposta alla legge della domanda e dell’offerta. Il lavoro è grazia e compito, è estrinsecazione dell’umano. In questo senso allora una rinnovata compagnia nei confronti dei lavoratori non è la semplice riproposizione di qualche modello del passato, ma il segno di un’attenzione nuova verso la profonda relazione tra la fede e la vita. Gli «ambiti» di esperienza valorizzati in occasione del Convegno di Verona indicano una modalità di missione che supera la separazione dei diversi segmenti in cui si articola la vita quotidiana per puntare al cuore delle persone e all’intera loro esistenza. In quest’ottica si articolano infatti le competenze dei vari Uffici di Pastorale, a partire – in questo caso – dalla Pastorale sociale.
         Quanto alla molteplicità degli interventi che le singole Chiese locali stanno mettendo in atto per corrispondere alle urgenze del territorio, c’è da dire che essi si affiancano all’attività ordinaria delle nostre Caritas, ossia ai servizi strutturati di pronto intervento e alle iniziative di accoglienza rivolte a diverse tipologie di emarginazione. Questa attività – che ordinariamente è alimentata dalle risorse dell’8×1000 e dai mezzi industriosamente raccolti al loro interno dalle singole comunità – sta articolandosi sempre di più per rispondere alle richieste di mini-sussidi economici avanzate da chi viene a trovarsi nell’emergenza per mancanza di lavoro, insufficienza del reddito, imprevisti sanitari, difficoltà legate a mutui o al pagamento delle utenze abitative. Su questo fronte sono partite ormai una serie di esperienze di micro-credito e si vanno istituendo localmente fondi, le cui modalità ci hanno non poco illuminato nel dare una forma convincente alla grande iniziativa che è in programma per la fine di questo mese a livello nazionale. È ormai noto infatti che domenica prossima, 31 maggio, si svolgerà in tutte le nostre parrocchie una Colletta nazionale volta a dare vita ad un Fondo di garanzia per le famiglie in difficoltà. È un’iniziativa – la prima nel suo genere – che vuol dare una risposta concreta a quelle famiglie monoreddito che abbiano momentaneamente perso l’unico cespite di entrata, con più figli a carico, oppure segnate da situazioni di grave malattia o disabilità. I termini concreti di questo strumento concordato con l’Abi sono già noti. Mi limito qui a due sottolineature: la scelta della famiglia, quale interlocutrice privilegiata di questo progetto, è del tutto congeniale alle sue stesse potenzialità; nel contempo, il gesto della colletta possiede, insieme ad un indubbio valore pedagogico, una significativa valenza ecclesiale (cfr 1Cor 16,1-2; 2Cor 9,5-8).
          6. Il consenso, francamente non cercato, che una serie di iniziative caritative adottate nell’ultimo periodo avrebbe procurato alla Chiesa, ha indotto taluno a chiedersi se non sia opportuno concentrarci sul terreno della carità, dove s’incontrano facili consensi, piuttosto che in quello assai più contrastato della bioetica. Ancora una volta veniva con ciò posto l’antico dilemma tra lo smalto dell’amore tradotto in opere e l’opacità che deriverebbe dall’affermazione di certi principi dottrinali. All’obiezione, riproposta oggi in termini cortesi, piacerebbe rispondere rilevando come il punto germinale di entrambe queste tensioni ecclesiali – quella della carità e quella della verità sull’uomo – sia in realtà lo stesso, ossia l’esempio di Gesù, anzi la sua stessa persona, il suo essere buon samaritano della storia e per ciò stesso rivelatore della cifra inconfondibile di ogni esistenza umana. A ben guardare, la vicenda dell’umanità rivela come la persistenza di un amore effettivamente altruista sia in realtà condizionata dall’annuncio della misura intera dell’umano. Fraintendimenti e deviazioni restano incombenti, se non si è costantemente richiamati al valore incomparabile della dignità umana, che è minacciata dalla miseria e dalla povertà almeno quanto è minacciata dal disconoscimento del valore di ogni istante e di ogni condizione della vita. Avere a cuore i temi della bioetica è un modo, non l’ultimo, per avere a cuore l’uguaglianza tra tutti gli esseri umani. Non si può assolutizzare una situazione di povertà a discapito delle altre; ma non si può nemmeno distinguere tra vita degna e vita non degna. Non c’è contraddizione tra mettersi il grembiule per servire le situazioni più esposte alla povertà e rivolgere ai Responsabili della democrazia un rispettoso invito affinché in materia di fine vita non si autorizzi la privazione dell’acqua e del nutrimento vitale a chi è in stato vegetativo. È una questione di coerenza. Rispetto alle diverse stazioni della «via crucis» che l’uomo di oggi affronta, la Chiesa non fa selezioni. La sua iniziativa però non ha mai come scopo una qualche egemonia, non usa l’ideale della fede in vista di un potere. Le interessa piuttosto ampliare i punti di incontro perché la razionalità sottesa al disegno divino sulla vita umana sia universalmente riconosciuta nel vissuto concreto di ogni esistenza e per una società veramente umana.
           In questa chiave, e a proposito di un ambito delicatissimo come quello della fecondazione artificiale, non possiamo tacere il rischio strisciante di eugenetica che potrebbe insinuarsi nel nostro costume a causa di interpretazioni della legge 40/2004, che forzosamente vengono avanzate sul piano della prassi come su quello giurisprudenziale.
           È noto come da oltre un mese sia in corso un serio impegno del nostro laicato che, all’insegna del motto «Liberi per vivere», intende approfondire e fare proprie le ragioni per cui il morire non può diventare un diritto che taluno invoca per sé o per altri. Se una tale pretesa infatti dovesse approdare nella legislazione e da qui attecchire nella mentalità corrente, le conseguenze sarebbero fatali anzitutto sul piano di quegli autentici diritti umani che costituiscono il portato di una intera civiltà. Tra il cosiddetto «diritto a morire» e gli altri diritti non vi è infatti alcuna omogeneità ontologica. È semmai la teoria dell’autodeterminazione che funge in questo caso da dottrina qualificante il discutibile diritto a morire. Il valore della libertà si iscrive nella dimensione relazionale che costituisce la persona e la rende non isola tra isole, ma punto luminoso correlato intrinsecamente agli altri soggetti. E si iscrive altresì nella verità delle cose e nell’orizzonte delle nostre scelte che infatti ci qualificano sul piano morale del bene e del male. Risuonano belle e impegnative le parole di Gesù: «La verità vi farà liberi» (Gv 8, 32).          
           7. Se accettassimo l’accennata idea di un cattolicesimo inteso come religione civile, o come «agenzia umanitaria», e se completassimo tale visione con l’idea di una fede nuda, scevra da qualunque implicazione antropologica, allora davvero priveremmo la comunità umana di un apporto fondamentale e originale in ordine alla edificazione della stessa città dell’uomo. Saremmo più poveri noi e sarebbe più povera la società. Ma soprattutto tradiremmo la consegna del Signore Gesù che è passato per le strade della Palestina «beneficando e sanando» i bisognosi (cfr At 10,38), come dicendo anche: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4). Per niente di meno la Chiesa è nel mondo, ossia per evangelizzare, il che è «non un aspetto soltanto ma tutta la missione della Chiesa» stessa, il «migliore e più importante servizio che […] può rendere al mondo» (CEI, L’evangelizzazione del mondo contemporaneo, 28 febbraio 1974, nn. 28 e 54). Il destino della Chiesa è di «portare la Buona Novella in tutti gli strati dell’umanità e, col suo influsso, trasformare dal di dentro […]» fino a «raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e col disegno della salvezza» (Paolo VI, Evangelii Nuntiandi, 8 dicembre 1975, nn. 18-19).
          Nella tendenza a ridurre il compito ecclesiale, e considerare le funzioni sociali come più rilevanti di quelle religiose, è difficile non vedere in azione una sorta di secolarismo edulcorato, ma non per questo forse meno subdolo, che – foss’anche senza volerlo – da una parte lusinga i cattolici e dall’altra li emargina. Alla base di una certa concezione della laicità, annotava tempo addietro Benedetto XVI, «c’è una visione a-religiosa della vita, del pensiero e della morale», che sostenendo «in particolare la marginalizzazione del cristianesimo, mina le basi stesse della convivenza umana» (Discorso al Congresso dei Giuristi cattolici italiani, 9 dicembre 2006). È un fenomeno che non lascia del tutto immuni le comunità cristiane. Fa leva infatti su un certo spiritualismo unilaterale, che può cedere facilmente il passo ad un’atrofia ecclesiale e a un vuoto del cuore.
          C’è la preoccupazione che, alla base di simili posizioni un po’ disincarnate, s’annidi una cultura neo-illuministica per la quale Dio in realtà c’entra poco – forse nulla – con la vita pubblica: lo si lascia al massimo sopravvivere nella dimensione privata ed intima delle persone. Ma il vangelo annuncia che Gesù è Dio fatto uomo, è pertinente alla storia e interessato al mondo. Ben lontano dall’essere allergico all’uomo e alla sua ragione, Egli è il suo più grande e fedele alleato: Cristo è veramente il grande “sì” di Dio agli uomini! Diceva Benedetto XVI durante il viaggio in Francia: «L’uomo deve senza sosta imparare o re-imparare che Dio non è suo nemico, ma suo Creatore pieno di bontà» (Discorso alla Conferenza Episcopale francese, 14 settembre 2008). E con i sacerdoti romani ha aggiunto: «Non perdiamo la semplicità della verità. Dio c’è e Dio non è un essere ipotetico, lontano, ma è vicino, ha parlato con noi, ha parlato con me» (Incontro con il clero della diocesi di Roma, 26 febbraio 2009). Ecco, dunque, perché vediamo con grande piacere l’iniziativa che, nella forma di un convegno internazionale sul tema «Dio oggi», è stata messa in cantiere per il prossimo mese di dicembre dal Comitato per il Progetto culturale. Il presidente di questo Comitato, Cardinale Camillo Ruini, verrà in assemblea a illustrarci l’appuntamento che, oltre ad annunciarsi di grande qualità, verte su un tema in forte lievitazione nei circuiti culturalmente più qualificati. Per parte mia, mi limito ad osservare che nel sottotitolo «Con Dio o senza Dio cambia tutto» – affermazione efficace di Miguel De Unamuno – si allude ad un convegno che giustamente non si esimerà da una domanda radicale su Dio dalla quale, al di là di ogni specializzazione, possiamo sperare di ottenere elementi per una risposta importante da offrire alla ricerca dei nostri contemporanei.
               8. Nell’ultimo periodo si è parlato molto di immigrazione. In primo luogo a causa del disegno di legge sulla sicurezza che la Camera dei deputati ha approvato in prima lettura, dopo alcune significative correzioni che peraltro non hanno superato tutti i punti di ambiguità. In secondo luogo a causa della concomitante ripresa degli attraversamenti del Mediterraneo che sono tra le modalità – non la più ricorrente ma certo una delle più pericolose – di ingresso irregolare nel nostro Paese. Ad essi le nostre Autorità hanno infine risposto con la controversa prassi dei respingimenti, già sperimentata in altre stagioni come pure in altri Paesi. Se la sovrapposizione con la campagna elettorale non ha sempre assicurato l’obiettività necessaria ad un utile confronto, non può sfuggire il criterio fondamentale con cui valutare questi episodi, al di là delle contingenze legate allo spirito polemico o alla stagione politica. Ossia il valore incomprimibile di ogni vita umana, la sua dignità, i suoi diritti inalienabili. Accanto a questo valore dirimente, ce ne sono altri, come la legalità, l’affrancamento dai trafficanti, la salvaguardia del diritto di asilo, la sicurezza dei cittadini, la libertà per tutti di vivere dignitosamente nel proprio Paese, ma anche la libertà di emigrare per migliorare le proprie condizioni da contemperare naturalmente con le possibilità d’accoglienza dei singoli Paesi, o magari solo per arricchirsi culturalmente. Motivo per cui il singolo provvedimento finisce con l’essere fatalmente inadeguato se non lo si può collocare in una strategia più ampia e articolata che una nazione come l’Italia deve darsi a fronte di un fenomeno epocale come la migrazione di intere popolazioni. La geografia infatti ha connesso un elemento – per così dire – vocazionale, un’indole che connota il Paese in rapporto alla sua collocazione storico-ambientale.
               Almeno due ci sembrano allora le domande a questo riguardo decisive: che cosa facciamo per contribuire a che i figli dei Paesi poveri non si vedano costretti ad affrontare qualunque rischio pur di darsi una speranza di vita? La via della cooperazione internazionale deve diventare un caposaldo trasversale della politica italiana ed anche europea, una scelta oculatamente perseguita e dunque anche impegnativa sul fronte delle risorse. Non c’è chi non veda, infatti, che solo migliorando le condizioni economiche e sociali dei Paesi di origine dei nostri immigrati si può togliere al fenomeno migratorio la propria carica dirompente. Ed è un motivo in più questo perché l’Italia si attivi molto nella riformulazione di quei più giusti meccanismi di governo dell’economia mondiale di cui prima parlavamo. L’altra domanda: cosa facciamo per assicurare un’effettiva integrazione agli immigrati che giungono nelle nostre città? Conta ovviamente il posto di lavoro e una dimora minimamente dignitosa, ma tutto ciò – anche quando è assicurato – non basta. Bisogna evitare infatti il formarsi di enclave etniche, perché così non solo si scongiurano micro-conflitti diffusi sul territorio, ma si modifica la percezione che non di rado i connazionali hanno circa la presenza di stranieri. Il territorio in senso antropologico è salvaguardato quando c’è, insieme ad un fondamentale rispetto, un coinvolgimento orizzontale che provoca l’incontro tra famiglie di provenienza diversa, un’osmosi delle loro esperienze, e uno scambio di forme culturali nel rispetto delle leggi da parte di tutti. Guai a sottovalutare i segnali di allarme che qua e là si sono registrati nel nostro Paese. L’immigrazione è una realtà magmatica: se non la si governa, si finisce per subirla. E la risposta non può essere solamente di ordine pubblico, anche se è necessario mettere in chiaro diritti e doveri, senza prevedere sconti in nome di un malinteso multiculturalismo che in realtà è solo una giustapposizione tra etnie che non dialogano. Bisogna che scattino invece i meccanismi di una convivenza che, a partire dall’identità secolare del nostro popolo, si costruisce non in base a moduli autoreferenziali e oppositivi, ma, con passo aperto e dinamico, diventa capace di incontrare altre identità, di contagiarsi positivamente secondo modelli interculturali, pur senza cedere ad una logica relativistica e priva di riferimenti marcati. È tempo cioè – come ci capitò già di dire – che si approntino e si perseguano dei veri e propri «patti di cittadinanza» per i quali un’evenienza epocale come l’immigrazione cessa di essere una casualità e diventa occasione per un’«identità arricchita», in grado di accreditare anche dei riferimenti condivisi. Va da sé che le parrocchie assumono, in questo disegno, un ruolo propulsivo che, senza rincorrere proselitismi ma anche senza rinunciare a proporre il Vangelo a tutti, sa farsi collante di vivacità e concreta integrazione nei diversi territori. Su questo fronte, per la verità, le parrocchie e i vari gruppi già si muovono, al di là del clamore e con generoso, quotidiano impegno.
             9 . L’ambito nel quale più preoccupante appare l’impatto dello spirito del tempo è quello educativo. Infatti si parla, non a caso, di «emergenza», e non per analogia né per retorica: su questo fronte percepiamo effettivamente un allarme serissimo, che va via via dilatandosi. E poiché consideriamo l’emergenza educativa il fattore in grado di mettere a repentaglio l’equilibrio di una società e le possibilità concrete di un suo progresso, il Consiglio Permanente ha deciso di farne il tema centrale di questa Assise. Collegialmente poi, ci esprimeremo sugli orientamenti pastorali del prossimo decennio. Su questo argomento ci aiuterà la relazione di S.Ecc. Monsignor Diego Coletti che fin d’ora ringrazio. Peraltro, non sono pochi coloro che, ritenendo praticamente impossibile l’opera dell’educazione, vi rinunciano in partenza. Anche tra le figure tradizionalmente dedite a questo impegno, come i genitori e gli insegnanti, sembra farsi strada un atteggiamento di resa, magari non dichiarata ma effettiva, come di un compito evidentemente in contrasto con ciò che interessa alle persone. A molti adulti, oggi, sembra un risultato già soddisfacente riuscire a trasmettere appena le regole del galateo, come a scuola le nozioni principali delle singole materie. Ma ben sappiamo che l’educazione è molto più che istruzione. È il risvegliarsi del soggetto che decide di sé, al di là di ogni determinismo sociale o biologico. La stessa istruzione stenta ad attecchire, e diventare un possesso per sempre, se non si insedia in un processo di crescita nel quale si trovano mobilitate tutte le risorse del soggetto. Una serie di fenomeni sociali peraltro non lascia spazio a illusioni. E ormai è anticipato all’infanzia il momento in cui gli adulti temono di non riuscire più a farsi ascoltare. In realtà, nessuno può gettare la spugna davanti a una sfida sì ardua, ma entusiasmante e decisiva: proprio perché qui si gioca la felicità delle giovani generazioni e il bene della società, merita che investiamo tutta l’intelligenza e la passione di cui siamo capaci, guardando avanti con fiducia e avvalendoci di una storia straordinaria che ha nei Santi dediti all’educazione dei veri maestri. Loro ci insegnano a tenere fisso lo sguardo sul Maestro: «Chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, si fa lui pure più uomo» (Gaudium et Spes, n. 41). Mi piace citare qui un grande educatore del secolo appena concluso, l’italo-tedesco Romano Guardini, le cui lezioni universitarie attiravano folle di giovani: «Che cosa dunque significa educare? […] Educare significa che io do a quest’uomo coraggio verso se stesso […]. Che lo aiuto a conquistare la libertà sua propria […]. Con quali mezzi? Sicuramente avvalendomi anche di discorsi, esortazioni, stimoli e metodi di ogni genere. Ma ciò non è ancora il fattore originale. La vita viene accesa solo dalla vita […]. Da ultimo, come credenti, diciamo che educare significa aiutare l’altra persona a trovare la sua strada verso Dio. Non soltanto che abbia le carte in regola per affermarsi nella vita, bensì che questo ‘bambino di Dio’ cresca fino alla ‘maturità di Cristo’. L’uomo è per l’uomo la via verso Dio» (R. Guardini, Persona e libertà, Editrice La Scuola, 1987, pagg. 222-223). Possiamo dire che, in certa misura, il problema dei giovani sono gli adulti! Il mondo adulto non può gridare allo scandalo, esibire sorpresa di fronte alle trasgressioni più atroci che vedono protagonisti giovani e giovanissimi, e subito dopo spegnere i riflettori senza nulla correggere dei modelli che presenta ed impone ogni giorno. Sono modelli che uccidono l’anima, perché la rendono triste e annoiata, senza desideri alti perché senza speranza. Ma il cuore dei giovani, anche quando sembra inerte o prigioniero del nulla, in realtà è segnato da una insopprimibile nostalgia di ideali nobili, e va in cerca di modelli credibili dove «leggere» ciò che veramente riempie la vita.
             In una tale situazione, il pericolo più grande, infatti, è rappresentato dalla sfiducia, dal pessimismo, dall’atteggiamento che nulla ormai ci può salvare. Bisogna invece reagire, e lo spazio – per quanto contrastato – c’è. Soprattutto è decisiva qui una consapevolezza di ordine diverso, capace di andare anche controcorrente. Per questo aguzziamo lo sguardo per registrare le voci e le esperienze che nonostante tutto anticipano i segni di una rinascita. Ed ancora stiamo attenti a cogliere le preoccupazioni che da altre agenzie affiorano sulla medesima emergenza. Se oltre che nella Chiesa, anche in altre componenti e istituzioni – come in parte accade – irrompe sul serio la questione educativa, allora qualcosa di importante può davvero prendere avvio. Bisogna coalizzare le forze, per applicarci al meglio nella diagnosi e scandire gli obiettivi, con i percorsi e i mezzi per raggiungerli.
          Quello educativo è, per le nostre comunità cristiane, un impegno tutt’altro che inedito. Su questo fronte, nell’arco anche solo degli ultimi sessant’anni, ha ad un certo punto preso forma una straordinaria stagione formativo-educativa, quasi un’epopea che ha beneficamente influito su diversi aspetti della vita nazionale. Ebbene, riprendere con sistematicità e intensificare ora un’azione che in fondo non è mai stata dismessa, significa collocarci su una linea di servizio che probabilmente intercetterà l’attesa di molte famiglie, a prescindere dalla frequenza o meno ai sacramenti. Come Chiesa, sentiamo nostra fino al midollo questa diaconia: essa non circoscrive la propria azione nella sola prospettiva religiosa, perché punta ad educare donne e uomini che faranno l’Italia e l’Europa di domani. Anche questo orizzonte, necessariamente più ampio, è obiettivo che merita la nostra dedizione. Lo diciamo alla vigilia del voto che eleggerà il nuovo Parlamento dell’Unione: alla luce delle esperienze non tutte positive degli ultimi anni, va costruita l’Europa dei cittadini e dei popoli, non quella delle burocrazie. Un’Europa che può tornare ad essere un ideale luminoso solo se si farà attenta alle coscienze e alle culture, se sa essere generosa all’esterno perché fedele e creativa rispetto alle proprie radici.
           10. Sappiamo bene che la risposta nostra all’emergenza educativa passa anche attraverso i sacerdoti. Certo, esistono le associazioni, i movimenti, i gruppi che hanno la loro ragion d’essere nella dinamica propria dell’educazione. Ma anche l’efficacia di queste aggregazioni in certa misura transita per la presenza al loro interno di autentiche figure presbiterali. Se da una parte il numero dei presbiteri ci impone una seria riflessione e soprattutto una più intensa preghiera per chiedere al Padrone della messe nuovi operai del Vangelo, dall’altra siamo provocati a camminare più decisamente sulla via della santità sacerdotale. Non è il numero, infatti, l’elemento decisivo nella missione educativa, e neppure l’età anagrafica – ce lo testimoniano i Santi – ma il fuoco interiore dell’amore di Cristo che ci sospinge e sostiene: «l’educazione è cosa del cuore» scriveva san Giovanni Bosco (Epistolario, Torino, 1959). Siamo così richiamati a quella formazione permanente che la Chiesa raccomanda da sempre: formazione che ha come scopo non solo il necessario aggiornamento teologico-pastorale, ma in primo luogo la ripresa comunitaria delle ragioni e del fascino della nostra vocazione. Essa è una «dichiarazione d’amore» (Giovanni Paolo II) e richiede da parte nostra una continua e crescente risposta d’amore fino a poter dire con l’aiuto della grazia: «Vivo. Tuttavia non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). «Oltre il bene c’è la santità. Oltre il bello c’è il sublime», diceva Paolo VI a Jean Guitton (Dialoghi con Paolo VI, Mondadori, pag. 281). Ebbene noi dobbiamo tendere, ad ulteriore titolo, alla santità e al sublime. Si tratta di un grande e crescente “sì” a Dio, un sì che impegna tutto l’essere e che costa una serie di rinunce, in primo luogo la rinuncia al proprio “io”. «Nel “sì” dell’Ordinazione sacerdotale – osservava il Papa lo scorso Giovedì santo – abbiamo fatto questa rinuncia fondamentale al voler essere autonomi, alla “autorealizzazione”» (Omelia cit.). Il sacerdote sa che il disegno della salvezza «non viene condotto a termine se non a poco a poco» (Presbyterorum Ordinis, n. 22), dunque con paziente convinzione e larga fiducia. Anche noi, educatori e padri della comunità cristiana, abbiamo bisogno continuamente di essere educati da Cristo e dalla madre Chiesa nelle molteplici dimensioni della nostra identità umana e sacerdotale (cfr Giovanni Paolo II, Pastores dabo vobis, 1990).
             L’«Anno sacerdotale», indetto da Benedetto XVI in occasione del 150° della morte di San Giovanni Maria Vianney, avrà inizio il 19 giugno prossimo in tutta la Chiesa cattolica. Si rivela una circostanza opportuna nella quale i nostri sacerdoti, e noi con loro, potranno rinvigorire il loro rapporto vitale con il Signore Gesù, misurando se stessi e la loro vocazione su quell’apostolica vivendi forma che è traguardo persuasivo di ogni dinamismo apostolico. Se il divino Maestro scelse i Dodici perché «stessero con lui» (Mc 3,14), siamo tutti richiamati – Vescovi, presbiteri e diaconi – a ripensare il primato della preghiera nella nostra vita. Preghiera liturgica e personale come forma della natura stessa dell’amore: esporsi allo sguardo dell’Altro, gioire della sua presenza che emerge dalle Sacre Scritture, dai Sacramenti e in particolare dall’Eucarestia, da quel semplice restare in silenzio che è adorazione e abbandono. Questa ricerca di intimità con Dio è, per la complessità e la frenesia della vita odierna, necessaria come il respiro dell’anima: essa ispira e sostiene la bellezza di una radicale offerta di noi stessi come della carità pastorale. Una carità tanto più vera ed efficace quanto più vissuta nella completa gratuità, desiderando esclusivamente servire la Chiesa nell’amore a Cristo e per il bene delle anime. Nient’altro.
             Vi ringrazio, Confratelli cari, per il dono della vostra attenzione. Ho cercato di individuare dei punti che sono, a mio avviso, cruciali e attendono di essere da Voi ripresi, valutati, sviluppati. Le mie parole sono un’introduzione che vorrebbe dare il tono e, ad un tempo, nella libertà e nella creatività, sollecitare il miglior apporto di ogni Confratello. «Siamo noi per primi la casa che Dio vuole restaurare» (Benedetto XVI, Discorso alla Famiglia francescana, 18 aprile 2009): per questo ci aiutiamo reciprocamente ad essere come Lui ci vuole. Ci benedica la Vergine Maria, ci assistano i Santi Francesco e Caterina, e i santi Patroni delle nostre Chiese.