di Mons. Oreste Leonardi, Primicerio della Collegiata di S. Petronio, Bologna
La visita di Erdogan a Roma, per una strana coincidenza, si è svolta proprio nel dodicesimo anniversario dell’uccisione a Trebisonda di don Andrea Santoro, al grido di “Allah è grande”.
Erdogan ha incontrato il Papa, poi Mattarella, Gentiloni e infine i responsabili di grandi gruppi italiani per parlare d’affari (Impregilo, Leonardo, Pirelli, Snam, Ferrero, Astaldi, Confindustria).
Tutti gli incontri sono stati blindati e severamente interdetti alla stampa.
La visita è stata preceduta e accompagnata dalle proteste della Rete Kurdistan in Italia e da molti interrogativi, perplessità e anche da un certo imbarazzo. L’Italia, infatti, è il primo Paese a ricevere il presidente turco da quando Erdogan ha scatenato la potenza di fuoco del suo esercito contro i curdi, nell’enclave di Afrin, in territorio siriano.
Si tratta di una regione dove curdi, cristiani, arabi, turkmeni, yazidi convivevano pacificamente, uno dei luoghi più sicuri, dove i profughi in fuga dagli orrori della guerra siriana avevano trovato accoglienza e pace. I bombardamenti di Erdogan fanno strage di civili, i morti sono già centinaia e i feriti migliaia, molti sono bambini.
Anche in Turchia Erdogan non risparmia le città curde, col pretesto della lotta al terrorismo; decine di migliaia di curdi e di oppositori turchi al regime sono imprigionati: parlamentari, attivisti politici, giornalisti, accademici, magistrati, scrittori, sportivi, operai, studenti, tutti sospettati di complottare contro il regime dispotico di Erdogan semplicemente perché rivendicano i diritti democratici e la perduta libertà.
Ma l’atto di accusa di Rete Kurdistan si rivolge anche contro ogni complicità occidentale nei confronti del dittatore: “Sembra incredibile che nessuno abbia messo in discussione questo incontro, una vera e propria visita di stato che legittima di fatto la dittatura di Erdogan, mentre la Turchia diventa sempre più ostile nei confronti delle minoranze”. L’appello di Rete Kurdistan si conclude con un forte atto di accusa: “LA TURCHIA E’ UNA DITTATURA, ERDOGAN UN ASSASSINO! LE SUE MANI SONO SPORCHE DI SANGUE, CHI LE STRINGE E’ COMPLICE DI CRIMINI CONTRO L’UMANITA’.”
La visita di Erdogan sollecita però anche una riflessione che ci riguarda molto da vicino.
La repressione e il dispotismo liberticida adottati in questi ultimi anni sono il mezzo attraverso cui Erdogan riconduce il paese (che aveva coraggiosamente imboccato con Ataturk la via della laicità) ad un pieno e sempre più invasivo islamismo.
Questo è particolarmente importante per noi, perché indica le modalità attraverso le quali l’islam può giungere al predominio e all’islamizzazione della società. Ricordiamo che se Erdogan è al potere ciò è dovuto al partito da lui stesso fondato nel 2001, e il cui programma è appunto la riorganizzazione della Turchia con lo scopo dichiarato di riaffermare i valori islamici come ideologia nazionale integratrice.
Ciò che avviene in Turchia è dunque per noi un campanello d’allarme.
Il pericolo rappresentato da una più ampia diffusione dell’islam in occidente è stato già denunciato da Civiltà Cattolica, che nel 2006 proponeva una descrizione allarmante dell’Islam fondamentalista, in grande espansione anche in Europa: un Islam proiettato alla conquista del mondo “per la causa di Allah”. Allo stesso modo sono preoccupanti i dati di un sondaggio del 2011 fatto da Espressonline in Egitto, giudicato abitualmente paese islamico “moderato”. Gran parte degli intervistati giudicava positiva l’influenza dell’Islam sulla politica, dando ragione ai fondamentalisti. Molti erano anche quelli che si dichiaravano favorevoli ad al-Qaeda, mentre quasi tutti ritenevano necessaria la pena di morte per coloro che abbandonano l’islam per aderire ad un’altra religione.
Queste sono anche, come rilevano altri sondaggi, le idee di gran parte degli islamici “moderati” che vivono fra noi. Proprio per questi motivi sarebbe necessario affrontare il problema indicato diciotto anni fa dal Card. Biffi, e del tutto ignorato: la perfetta immedesimazione tra religione e politica fa parte della religione islamica. E in effetti l’islam, là dove è divenuto numericamente preponderante, ha sempre imposto la sua legge, incompatibile con i principi che ispirano le nostre società occidentali: la Conferenza dei paesi islamici ha siglato nel 1981 una Dichiarazione dei diritti dell’uomo nell’islam, rifiutandosi di sottoscrivere quella approvata dall’ONU nel 1948, perché non rispondente alle “esigenze religiose e culturali” dei paesi islamici.
Alla luce di questa Dichiarazione appare chiara l’incompatibilità fra la nostra Costituzione con i suoi principi di democrazia e di libertà e l’Islam. Si tratta, per fare qualche esempio, dell’uguaglianza dei sessi, della poligamia e del diritto di famiglia (con la prevista condanna a morte per le adultere), del diritto del musulmano ad essere giudicato secondo la legge islamica (come appunto avviene già in Gran Bretagna e in Germania!), del modo di considerare cosa sia la blasfemia (punita con la condanna a morte anche solo per gesti giudicati irriguardosi), della libertà di coscienza, con la possibilità di abbandonare l’islam per un’altra religione (punita anche questa con la condanna a morte), della libertà di pensiero e di opinione, del problema dell’educazione scolastica (i testi scolastici per i bambini alla domanda: “Chi è un vero musulmano?“, indicano così la risposta corretta: “Un uomo che adora unicamente Allah, ama i credenti e odia gli infedeli“), fino alla libertà di mettere in discussione pubblicamente il modo di leggere e interpretare il Corano (è utile ricordare a questo proposito la protesta degli stati islamici per il discorso di papa Benedetto XVI a Ratisbona e i sanguinosi disordini che ne sono seguiti).
Anche i numerosi incontri sul tema della pace realizzati insieme agli islamici dovrebbero diventare una preziosa occasione per chiarire gli equivoci che caratterizzano il significato delle parole pace e guerra nel confronto con il mondo islamico.
Molti studiosi mettono in evidenza anzitutto che la pace, nell’islam, è possibile solo all’interno dello stesso mondo musulmano, mentre in rapporto agli “infedeli” può significare solo conversione o sottomissione.
Tutto il mondo appartiene infatti, per diritto divino, all’islam, e dunque è santa e strumento di pace quella guerra (fatta di predicazione, espansione demografica, azioni militari) che tende a conquistare quei paesi che i non islamici detengono ingiustamente, e che perciò devono essere restituiti ai musulmani.
La pace si realizza così nella sottomissione o nella conversione degli infedeli.
Quando però tale conquista non è possibile allora la non belligeranza è considerata una situazione contingente e transitoria, in attesa che gli islamici diventino più forti e preponderanti e quindi capaci di imporre il proprio predominio.
Il fondamento di questa duplice linea di comportamento si trova nel Corano. Gli insegnamenti che risalgono al tempo in cui il Profeta viveva a La Mecca e la sua comunità era ancora debole e minoritaria propongono un messaggio di pace e di coesistenza (per es. il fatto che non ci debba essere costrizione nella religione).
Gli insegnamenti che risalgono invece al tempo di Medina, quando la comunità del Profeta era ormai divenuta forte e potente, propongono invece un messaggio di conquista e di vittoria (per es. la necessità di combattere tutti i non-musulmani fino a quando non si convertano o non si sottomettano all’islam).
Così quando la comunità musulmana è debole o in condizione di inferiorità numerica può predicare e comportarsi secondo i versetti della Mecca (pace e tolleranza); quando invece è forte e maggioritaria può passare all’offensiva, secondo i versetti di Medina (guerra e conquista).
Infine sembra perlomeno singolare che il tema centrale del colloquio con il Santo Padre abbia avuto come oggetto la condizione di Gerusalemme, rivendicata come capitale da ebrei e palestinesi.
In Turchia infatti le Chiese cristiane non sono riconosciute dallo Stato (non possono avere seminari, o scuole né costruire nuove chiese), e i cristiani non sono considerati cittadini a pieno titolo (per es. non possono lavorare nella pubblica amministrazione).
Per capire quale sia l’atteggiamento pratico della Turchia circa i problemi di convivenza fra etnie e religioni diverse, a parte il genocidio degli armeni di cui già si è parlato molto, è sufficiente tornare al tempo del problema dei greci del Ponto (regione dell’odierna Turchia nord orientale) durante e dopo la prima guerra mondiale, tra 1914 e 1923.
Secondo la Ligue Internationale pour les Droits et la Libération des Peuples, tra 1916 e 1923, quasi 350.000 greci del Ponto furono uccisi. Secondo altri i greci uccisi furono molti di più. Rudolph Rummel afferma che tra il 1914 e il 1918 furono sterminati 384000 Greci e tra il 1920 e il 1922 ne sarebbero stati uccisi altri 264000, per un totale di 648000.
Negli stessi anni circa un milione e mezzo di persone (secondo alcuni autori più di tre milioni) abbandonò forzatamente le terre dell’attuale stato turco spostandosi alla volta della Grecia.
La maggioranza faceva parte di una popolazione da sempre residente in quelle regioni, di lingua greca e fede cristiana. Anche i greci di Istanbul, ripetutamente messi in difficoltà da provvedimenti amministrativi, hanno abbandonato la città, specie a seguito del cosiddetto “Pogrom d’Istanbul” del 1955 (deportata con due giorni di preavviso, la comunità greca d’Istanbul si ridusse dalle 80.000/ 100.000 persone del 1955 alle odierne 2.500 persone, per lo più anziane).
Con una simile storia alle spalle quale credibilità può avere Erdogan per il problema “Gerusalemme”?
Tratto da: http://www.imolaoggi.it/2018/02/08/erdogan-not-welcome-roma-non-ti-vuole/