Esclusivo dalla Polonia: chi spiava Karol Wojtyla
Nomi, rapporti e documenti sulla rete di informatori che tenevano sotto controllo la vita del grande uomo di Chiesa, prima e dopo la sua elezione a papa. Da “L’espresso” n. 3 del 19-25 gennaio 2007
di Gigi Riva Wojdyla, scritto così. Nel 1949 il futuro papa era un nome storpiato, nei rapporti alla polizia segreta di un sacerdote infedele della curia di Cracovia. Ma avrebbero imparato a conoscerlo molto bene, e a non sbagliare, nei successivi quarant’anni, fino alla morte del regime, durante i quali la sua vita è stata ascoltata, filmata, seguita, sezionata “h24” come si dice in gergo militare. Giorno e notte. Dovunque. In Polonia come a Roma. Negli aeroporti e sui treni. Una fitta rete che ha coinvolto, a staffetta e senza soluzione di continuità, decine e decine di agenti, infiltrati, preti, giornalisti, intellettuali, operai, impiegati, segretari, amministratori. Conoscenti, vicini, alcuni proprio amici che si è portato in Italia.
Lo si sapeva, perché non poteva essere altrimenti che così. Ora ci sono le prove della ragnatela tesa attorno al seminarista, poi prete, poi vescovo, poi cardinale, poi papa, grazie ai documenti ritrovati tra i 90 chilometri di carte dell’Istituto polacco della memoria nazionale. Lo stesso da cui sono usciti i dossier che hanno costretto alle dimissioni per collaborazionismo, lo scorso 7 gennaio, l’appena nominato arcivescovo di Varsavia monsignor Stanislaw Wielgus, 67 anni, e indotto la Chiesa polacca a scavare sul passato di tutti i suoi prelati.
Su Karol Wojtyla c’è nei dossier un buco inspiegabile, e riguarda l’attentato di Ali Agca del 1981. Solo pochi frammenti, di scarso interesse. Lo storico Andrzej Friszke ritiene probabile che “i servizi polacchi non c’entrino, sarebbe stato per loro troppo rischioso”. E se in quella foresta di dossier non c’è nemmeno un’informativa dettagliata, egli invita a “cercare a Mosca”.
Il suo collega storico Andrzej Paczkowski, seduto per sei anni nel consiglio dell’Istituto della memoria nazionale, ricorda che molti documenti riguardanti la Chiesa furono deliberatamente distrutti. Però avverte: “Gli archivi sono stati riunificati nel 2000. Abbiamo impiegato tre anni solo per organizzarci. Da altri tre gli studiosi lavorano. Ci vorrà molto altro tempo anche solo per leggere tutto”.
Le sorprese non mancheranno. A molti piacerebbe dare un nome a “Seneka”, agente attivo tra Cracovia e Roma, molto vicino al papa. Un filosofo? Chiaro che sul nome “Wojtyla”, il più ghiotto, si sia dall’inizio concentrato l’interesse. Ma ora è facile, nel mondo non solo in Polonia, dire “Wojtyla”. Allora, nell’immediato dopoguerra, era uno sconosciuto che poteva indurre in errore, poteva diventare “Wojdyla”. E da qui inizia la nostra storia.
Cracovia, 17 novembre 1949. L’infiltrato, nome in codice “Zagielowski” (ma usa anche “Torano” e in futuro si firmerà), manda alla polizia un rapporto “molto segreto” su una riunione di curia dove si accenna a questo “Wojdyla” tra gli elementi da tenere d’occhio.
“Zagielowski” è uno reclutato nel 1948, lo sarà fino al 1967, anno del decesso. Il secolo lo ricorderà col suo vero nome, Wladyslaw Kulczycki. Padre Kulczycki. Era stato internato in un lager nazista e per questo ritenuto più abbordabile: aveva conosciuto le nefandezze a cui può arrivare l’uomo. Inoltre aveva un peccato da farsi perdonare, in quanto vestito con l’abito talare. Una debolezza sessuale. Nel 1953 una nota del IV dipartimento del ministero dell’interno, quello incaricato di vigilare sulla Chiesa, così lo premia: “La valutazione su di lui è buona. È l’unico affidabile tra coloro che lavorano a Cracovia”. Parroco a San Nicola, amico del mitico cardinale Stefan Wyszynski (nella foto, con Wojtyla) e forse addirittura suo confessore, verso il giovane Karol da Wadowice dimostra un’avversione rancorosa. Non si spiega come scali così facilmente le gerarchie ecclesiastiche. In un documento redatto nel 1960 sbotta: “Non capisco perché venga scelto Wojtyla per ogni mansione importante. L’uomo è ben educato, conosce i comunisti, è introdotto tra gli operai e a Nowa Huta organizza di frequente delle visite pastorali”.
Gli infiltrati non si conoscono tra di loro. È così che funziona, a ogni latitudine. E chissà quante volte padre Kulczycki avrà incontrato nelle stanze del vescovado un’altra pedina fondamentale per il regime: Tadeusz Nowak, l’economo della curia, oltre che amministratore di “Tygodnik Powszechny”, il settimanale cattolico assai caro al futuro Giovanni Paolo II.
Nowak è “attivo” dal 1955 al 1982 col nomignolo di “Ares”, da lui stesso scelto. Ares, il dio greco della Guerra. Chi lo ha conosciuto non nasconde il proprio stupore. Come? Dietro quel buontempone dalla lingua troppo lunga e facile agli scherzi si nascondeva una spia? Proprio così. E non una banale spia, per via del ruolo e dei contatti. Le sue confidenze venivano raccolte direttamente dall’ufficiale Jozef Schiller, uno di cui si potrebbe ammirare la professionalità se non fosse stata messa al servizio di una ignobile causa. I suoi metodi di reclutamento erano così raffinati, la rete costruita così efficace da fargli meritare una luminosa carriera nella buia notte del totalitarismo. Dopo Cracovia diventerà direttore aggiunto del quarto dipartimento.
È Schiller l’interfaccia di Nowak-Ares. E l’economo di “Tygodnik Powszechny”, scrivendo a macchina, diligente racconta quanto denaro possiede la curia, chi e a che livello di indignazione si lamenta per le tasse imposte dal governo centrale. Poi, in pubblico, compare a fianco di Wojtyla con il buffo costume che ha facoltà di mettersi dopo che ha ricevuto la medaglia Pro Ecclesia et Pontifice, donatagli da Paolo VI, la più alta onorificenza riconosciuta fino ad allora dalla Chiesa di Roma in Polonia dopo la seconda guerra mondiale.
La cerimonia di consegna del blasone (17 aprile 1965) viene descritta in una meticolosa nota (commozione di Nowak compresa), dall’agente “Erski” o “Pantera”. Che altri non era se non il distributore del giornale cattolico e si chiamava Waclaw Debski. Oppositore radicale del comunismo, condannato per questo all’ergastolo, liberato dopo il 1956 e la fine dello stalinismo, venne reclutato e per vent’anni regolarmente retribuito con una paga che corrispondeva, all’epoca, a uno stipendio. Tanta munificenza era giustificata dalla qualità dei servizi resi: non solo sorvegliava i cattolici dentro la redazione, ma negli uffici, avendo libero accesso, aveva nascosto le microspie e forniva le chiavi ai suoi superiori del secondo lavoro per le perquisizioni clandestine e notturne.
Ares ed Erski sono stati i destinatari di un documento “tajne” (segreto) redatto a Cracovia il 9 ottobre 1969 probabilmente con l’ausilio di uno psicologo. Karol Wojtyla è già diventato cardinale e pochi mesi prima ha sfidato il regime posando la prima pietra per l’edificazione della chiesa a Nowa Huta. Ormai è lampante la sua pericolosità. E allora di lui bisogna sapere tutto. Il documento sono due questionari (vedi sotto) ora conservati all’Istituto della memoria nazionale e classificati coi codici Kr 08/141, t, l, k. 588-591 e Kr 08/141, t, l, k. 592-594. Le spie devono rispondere a nove pagine di domande sia sulle abitudini di Wojtyla, anche le più apparentemente insignificanti (Porta occhiali? Da sole? Di che tipo?), sia sulla personalità: è analitico, sintetico, oggettivo, soggettivo, creativo? È un idealista? Ama rischiare? Per ora non sono state trovate le risposte ai questionari, preziosi soprattutto per capire le ossessioni della polizia. Di certo devono essere stati consegnati, per via del tenore intimo di ciò che si voleva apprendere, a vicini collaboratori, addirittura ad amici. Sacerdoti, anche.
Michael Jagosz, canonico della basilica di Santa Maria Maggiore a Roma e capo della commissione storica della causa di beatificazione di Giovanni Paolo II, ha già cercato di allontanare i sospetti che circolano su di lui: “Hanno provato anche con me. Sono stato contattato, ma non ho mai dato informazioni”. Lo smentisce il lavoro dello storico Marek Lasota, già autore del libro “Donos na Wojtyle” (Denuncia contro Wojtyla), indefesso ricercatore dei rapporti tra servizi segreti e ambienti cattolici di Cracovia, il quale afferma sicuro seppur benevolo: “Jagosz fu reclutato in quella che definirei una situazione drammatica negli anni ’70. Iniziò a collaborare e poi ruppe tutte le relazioni all’inizio degli anni ’80, quando approdò a Roma”. Quale sia la “situazione drammatica” Lasota non vuole spiegare. In generale (e non necessariamente in questo caso) lo storico Paczkowski rileva che tre erano le “debolezze” per cui i preti diventavano ricattabili: “Sesso, soldi e alcol”.
Chissà poi cosa ha convinto Mieczyslaw Malinski, compagno di seminario amico del papa e suo primo biografo, a diventare l’agente “Delta” e a incontrare frequentemente il capitano Podolski. Si protesta innocente anche padre Konrad Hejmo, responsabile dei viaggi dei polacchi in Vaticano, e ammette soltanto dei tentativi di reclutarlo. Ma lo inchiodano 20 ricevute rilasciate dal quarto dipartimento del ministero dell’interno oltre a un dossier che, stando a Jan Zaryn, storico, è ricco di “circa 700 pagine”. Padre Hejmo ha avuto almeno tre nomignoli: “Hejnal”, “Volpe” e “Domenicano” (appartiene a quell’ordine). E almeno altrettanti referenti. A metà degli anni Settanta, quando si occupava del mensile “In marcia”, si incontrava col funzionario di polizia Waclaw Glowacki. A Roma vedeva sia tale “Pietro”, funzionario dell’ambasciata polacca, sia “Lacar”, agente misto che rendeva servigi a Varsavia e ai tedeschi dell’Est.
Lo scandalo esploso con l’arcivescovo Wielgus ha convinto alle dimissioni il parroco della cattedrale di Wawel, Janusz Bielanski, amico di Stanislaw Dziwisz, segretario di Giovanni Paolo II e ora arcivescovo e cardinale nella stessa Cracovia. Che anche l’entourage di Dziwisz fosse infiltrato è naturale. Si stima che fossero 2.600 i sacerdoti collaboratori alla fine degli anni Settanta, circa il 15 per cento del clero di Polonia. La curia di Cracovia era davvero un crocevia di spie, in abito talare o no.
Il vice dell’economo di “Tygodnik Powszechny”, Nowak, si chiamava Antoni Ocheduszko, nome in codice “Orski”. Era stato un agente segreto negli anni Venti, poi un perseguitato dell’epoca stalinista. Aveva un profilo perfetto per un ricatto. Era anziano, soffriva di crisi cardiache ed era benvoluto dai giovani. Pare mettesse una certa attenzione nel non divulgare nulla che potesse nuocere. Spesso simulava di stare male per evitare un incontro con chi doveva interrogarlo. Quando proprio non poteva sottrarsi, riferiva su cosa mangiavano i preti o i giornalisti.
“Rumun”, cioè Stefan Papp, redattore tecnico di “Tygodnik Powszechny”, aveva la disgrazia nel nome: padre tedesco di origine ungherese che viveva in Romania. Un cosmopolitismo di famiglia che lo metteva in sospetto. Inoltre, chissà come, i suoi “angeli custodi” avevano appreso che non era credente. Due “colpe” e la sensazione di peccati da espiare. Come? Rivelando le reazioni interne al giornale a certe notizie pubbliche.
E poi c’era “Blady”, cioè Jozef Wilga, uno venuto dalla campagna e col desiderio di entrare a far parte dell’intellighentia di Cracovia. Aveva fallito un esame all’università, cosa da poco, e per questo non poteva inseguire la carriera di giudice che tanto sognava. Il perfido Schiller, mellifluo, gli adombrò la possibilità di un intervento sul tribunale perché gli desse il nulla osta a continuare gli studi. E in cambio Blade stilò rapporti sui membri del club degli intellettuali cattolici, descrisse le loro riunioni, specificò quali erano i conflitti personali, cosa pensava ciascuno sull’allora capo del partito Wladyslaw Gomulka e sul partito stesso.
Uno dei capolavori di Schiller fu tuttavia il reclutamento di Sabina Kaczmarska, l’agente “Jesion” anche detta “Samotna”, cioè sola. Nubile, bruttina, correttrice di bozze al giornale, col sogno di diventare redattrice. Schiller la lusinga: scriva un rapporto per noi sul numero che uscirà, una vera recensione, siamo così interessati alla sua opinione e poi lei è talmente brava. La sventurata rispose. “Un rapporto” diventò una collaborazione lunga 12 anni. E “Jesion” fu impiegata, come risulta da un documento, anche per influenzare i cronisti stranieri di passaggio a Cracovia. Adesso è una signora vicina agli 80 anni. Redattrice non diventerà più.
Roman Graczyk, autore del libro “Tropem SB”, cioè “Sulle tracce di SB” (acronimo di Sluzba Bezpieczenstwa, servizio di sicurezza), uno tra i sostenitori della necessità della “lustracja” cioè di fare luce sui dossier, ammette di aver provato una certa “pietà umana” nello studiare certi casi. Dove pietà umana non significa assoluzione. Nemmeno ora che sappiamo come è finita la storia, con Wojtyla a San Pietro e il comunismo sconfitto. Perché in quei tempi difficili ribellarsi era possibile. Lo dimostrano proprio le carte degli archivi, zeppe anche di chi si rifiutò.
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Due questionari, 97 domande
Il cardinale Karol Wojtyla era una vera ossessione per i servizi polacchi, fin dai tardi anni Sessanta. Del futuro papa si voleva sapere tutto: dalle opinioni, alle abitudini, agli hobby, alla salute, alla famiglia. E due documenti trovati negli archivi dell’Istituto della memoria nazionale sono particolarmente agghiaccianti.
Il primo, più generico, reca la data del 9 ottobre 1969, è definito “segreto”, firmato da “Boguslawski vicecapo del Dipartimento IV della questura di Cracovia”, e contiene un elenco di domande cui debbono rispondere le spie che seguono Wojtyla: tra queste, quelle sulle sue capacità intellettuali, sul coraggio, sulla fedeltà alla Chiesa, sull’atteggiamento nei confronti del Vaticano e della “realtà
socialista” della Polonia. Roba di ordinaria amministrazione.
Un secondo documento invece, senza data, ma sempre riguardante Wojtyla, è davvero maniacale. Sono 97 domande a cui si cercano 97 risposte delle spie sulle orme dell’allora cardinale.
La prima domanda: “A che ore si alza, nei giorni feriali e di domenica”. La seconda: “Cosa fa, una volta alzato, e in quale sequenza”. La terza: “Ogni quanto si fa la barba e con quali strumenti”. La quarta: “Quali sono i cosmetici che usa”.
Si prosegue nel capitolo “Vita quotidiana” con curiosità poliziesche tipo: “Cosa fa prima di cominciare a lavorare”, “A che ore pranza”, “Gioca a bridge, a carte, a scacchi?”. Non mancano le domande sull’uso dell’alcol: “Che tipo?”, “Quanto?”, “Quando?”. I servizi vogliono poi sapere dove Wojtyla custodisce le chiavi di casa e dell’ufficio e chi gli lava la biancheria.
In un altro capitolo ci si interroga sugli “interessi per i mezzi audiovisivi”. Si vuole sapere che tipo di radio possiede Wojtyla e se ha anche un apparecchio tv. Si chiede se va ai concerti, se gli piace l’opera lirica. Ci sono domande sul tipo di musica che interessa al futuro papa e anche quali giornali quotidiani legge e quali pagine sono di suo interesse. Non manca la curiosità sull’abitudine di sentire
le radio occidentali e se e con chi “discute di politica”.
La salute del futuro papa non sfugge certo ai servizi: si vuole sapere, oltre alle cose generali, chi è il suo dentista, se porta gli occhiali e di che tipo, e quali medicine custodisce in casa. Si vuole sapere poi se è un collezionista di francobolli, se gli piace fare le foto, e se sa battere a macchina. Importante è sapere quali e quante valigie possiede Wojtyla, quali vestiti usa quando fa sport d’inverno e d’estate.
La famiglia è pure un oggetto di indagine: “conflitti, successioni, aiuti materiali”. Infine i poliziotti vogliono scoprire chi sono gli amici “più intimi” e chi invece coloro che consigliano il cardinale Wojtyla.
Quanti soldi, energie, risorse umane sprecate. Perché alla fine Wojtyla ha vinto,
ha perso il comunismo.